
«Se non vivessimo audacemente, prendendo il toro per le corna e tremando sui precipizi, non saremmo mai depressi; ma già saremmo appassiti, vecchi, rassegnati al destino»
(Virginia Woolf)
Era un personaggio che non aveva mai potuto evitare di mettere tutta sé stessa in tutto; iniziava le cose quasi senza pensare, che se si fosse messa a riflettere, non sarebbe partita mai. In ogni inizio c’era la forza dell’ottimismo, non si capiva dove trovasse le scorte: l’entusiasmo era un fattore genetico, o così sembrava essere.
Tempo prima, addirittura, era stata accogliente ed impegnata a far sentire il prossimo sempre nel suo habitat: non lo diceva mai, ma pur di ottenere la comodità altrui, accettava di stare scomoda lei, poiché, si sa, ciascuno fa sempre ciò che più avrebbe bisogno di ricevere.
Quindi era così: condannata. Era capace di sentire tutto, percepiva le persone, sentiva nettamente i loro pensieri e non le sfuggiva mai alcun movimento emotivo di qualsiasi contesto. Non poteva evitarlo, ed era faticoso.
Spesso lottava contro l’istinto e ogni volta che non lo ascoltava, sbagliava. Il sesto senso non l’aveva mai tradita, al contrario lei molte volte si era messa nella condizione di tradire lui. Errore che costava sempre il prezzo della solitudine necessaria a coloro che devono dire a sé stessi ciò che, guarda caso, mai dicevano agli altri, nemmeno quando sarebbe stato giusto farlo: “Te lo avevo detto!”
Combatteva ed era passionale in ogni sua espressione, rabbia inclusa. Una cosa che raramente le si vedeva usare, non perché possedesse la calma interiore dell’illuminato e la compassione del bodhisattva, ma perché era parsimoniosa con i suoi istinti più bestiali: destinati a pochi. Pochissimi.
Non si era mai impegnata per presentare il conto a nessuno. Anzi, quando l’occasione arrivava e sapeva di poter finalmente mettere lo sgambetto a chi l’aveva presa a calci, ecco, il suo piede automaticamente si ritraeva. C’era già la vita a mettere a posto le tessere. Non ammetteva di non conoscere il sentimento che nutre la vendetta: piuttosto, sosteneva che vendicarsi costasse fatica e lei era pigra, pigrissima.
A volte sembrava essere un fluido che poteva passare dallo stato solido, a quello liquido, fino al gassoso, ma non era ancora evaporata.
Era convinta non esistessero guerre invincibili e più le cose erano difficili, più, secondo lei, valeva la pena lottare. Si diceva schiettamente che ce l’aveva fatta un’altra volta ancora e che il merito delle vittorie non era mai in due sole mani.
Sapeva che i trofei andavano mantenuti almeno da quattro arti, per avere un valore vero e riteneva, inoltre, che ci fossero battaglie più grandi, poiché appartenenti a guerre più importanti. Ecco che, in quelle, invece, era convinta di non poter fare sempre il guerriero di prima fila. In quelle, giunti al punto di non ritorno, sentiva giusto il dover fare un passo indietro e lasciare che qualcuno iniziasse a lottare al posto suo, nella flebile speranza che fermarsi un attimo a guardare cosa succedeva, potesse servire a farle credere che fosse giusto tornare a ricoprire il posto in prima linea. Non dietro, non avanti, non sopra, non sotto, ma accanto.
Erano quelle circostanze, però, in cui si diceva pronta anche a subire la sconfitta. Con la consapevolezza che una speranza, per quanto flebile, era pur sempre speranza.
Chiudeva ogni sua giornata pensando: “Sia fatta la Tua volontà“ e provava a non cambiare mai idea sul fatto che, da sempre, aveva creduto e da sé, si era dimostrata, volere era potere.
Non sempre, ma quasi. Erano le gimcane per schivare i colpi bassi e disonesti degli altri, il problema principale. Ricordarsi che fidarsi è bene e non fidarsi è meglio, mentre qualcuno si lamentava e qualcun altro comunque aveva i suoi cuscini e dormiva sereno. Stava spesso lì, sull’orlo del precipizio, ogni volta più fragile, ogni volta con più basse possibilità di resa e imparava, ad ogni occasione, meglio la lezione: nelle cose più profonde e importanti, noi siamo indicibilmente soli.