Nell’esercizio di prossimità concreta, ci pensa la provvidenza a colmare i vuoti. La provvidenza, cioè la carità di Dio.
C’è una nicchia di carità, a Matera, che alimenta la speranza nella Chiesa rinnovata. È posta su via Lucana. Stretta dall’abbraccio comunitario dei parrocchiani di san Rocco.
Nulla di statuario, all’interno come all’esterno, nell’edificio di culto e annessi. Anzi, spazi ridotti e accomodati: la scena del teatro parrocchiale, ad esempio, chiuso il sipario, è un deposito di beni alimentari. Piccoli ambienti, dunque, eppure grandi come chi li anima e li abita. Perché custodiscono la carne viva di Cristo migrante, accolgono lo scarto umano, ospitano ogni giorno la lavanda dei piedi. Tu vai di lunedì, oppure di sabato, ed è sempre giovedì santo… brocca e catino, stola e grembiule!
Il panno di servizio lo indossano in tanti. Innanzitutto il parroco, don Angelo, che continua a proporlo con naturalezza alla comunità, ai collaboratori ormai adusi a praticare la gratuità secondo la nuda lettera evangelica: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10, 8).
È il carburante della missione. È l’architrave dell’economia della salvezza, che non vive di calcoli, meno che mai di “do ut des”. Ma di gratuità, appunto, cioè del dare-avere senza interessi. Con incredibili partite di giro che vanno dall’abbraccio ecumenico al cibo posato gioiosamente sulla mensa; dal vestiario che difende il corpo, ai farmaci che lo sostengono; dal tetto che copre, alla parola che incoraggia, al gesto materno che rimbocca le coperte. Al punto che Francesca, piccolina, aggiunge: “Qui, che sia di Maometto o di Gesù, sei bene accetto, anche se indù”.
E appena il bilancio va in rosso, in questo meraviglioso esercizio di prossimità concreta, ci pensa la provvidenza a colmare i vuoti. La provvidenza, cioè la carità di Dio.
Questa missione parte dalla sacrestia estroversa, dove campeggia il volto accogliente di don Tonino Bello. C’è sempre lui di mezzo, a tutelare l’umano. Il suo nome lo leggi sulla targa che immette alla vicina casa d’accoglienza.
Don Tonino è la cometa di ogni notte esistenziale. Di chi approda in questo luogo alla ricerca di una lama di luce. L’anziano ossessionato dal Parkinson, rifiutato dai suoi e raccolto dalla strada, come i fratelli neri che ormai si muovono a frotte, eppure sono invisibili nel tempo e nello spazio: fantasmi privi di dignità, di terra, di diritti. Svolazzano, prosciugati di ogni sostanza…
Levita anche don Angelo, nomen omen. La sua avventura nasce nei Sassi, ieri gravina dello scandalo, per la condizione subumana dei residenti; oggi giardino di B&B esclusivi, merletto trapuntato di piccoli resort, ristorantini, bellezze incastonate nella bellezza.
Lì si è formato il pretino di Piccianello – quando i Sassi erano gravina dello scandalo, appunto, e cultura del vicinato – grazie alla testimonianza di don Giovanni Mele, prete sociale, santo inclusivo.
Oggi don Angelo è acqua battesimale che rigenera, in Matera e oltre: dal sasso barisano a quello caveoso; dove, dopo il set di Gibson, continua a consumarsi la passione di altri poveri cristi contemporanei.
E coltiva il sogno, don Angelo, di bagnare anche l’inferno de “La Felandina”, baraccopoli di Metaponto (diocesi di Matera-Irsina), dove centinaia di altri fratelli, migliaia d’estate, vivono come vivono, nell’indifferenza quasi generale.
C’è un Angelo, a Matera, che “guasta le feste” e provoca il vero “cambiamento culturale”.
Tant’è che neanch’io so più quale strada scegliere, ad andarci. Se quella che porta alla città diventata capitale identitaria della bellezza paesaggistica, che occhieggia a chi desidera recuperare, nell’oasi di lentezza, il proprio io smarrito; o quella che immette alla periferia degli scarti, rigenerati nella carne e nello spirito da chi ama scalare le vette dell’umano solidale. Sfidando, se occorre, i seracchi della glaciazione in atto.