La soddisfazione di quattro ragazzi che, da quasi trent’anni, si divertono con microfoni, chitarre, contrabbasso e batteria.
I Bermuda Acoustic Trio hanno soverchiato la dottrina della musica applicata al mercato. Il loro lavoro, desueto nelle modalità, ma pungente nel messaggio, sopravvive alle imposizioni delle grandi etichette, arrivando al cuore del pubblico anche attraverso l’energia di uno zucchero dal retrogusto amaro, un dolciastro che assapora le difficoltà della vita con suoni rassicuranti e testi spiritosi. Tra cover e inediti, Giorgio Buttazzo, Andrea Atto Alessi, Lele Veronesi e la guest voice, Luciana Buttazzo, hanno accettato, sabato 1 aprile, l’invito dell’Auditorium Parrocchiale Cuore Immacolato di Maria, in Via Cinzio Violante, Andria. Odysseo ha chiesto al leader del gruppo, Giorgio Buttazzo, di raccontare la soddisfazione di quattro ragazzi che, da quasi trent’anni, si divertono con microfoni, chitarre, contrabbasso e batteria.
Ciao Giorgio. Il nome “Bermuda” evoca, di sicuro, scenari esotici o, quantomeno, informali. Sbaglieremmo se affermassimo che l’acustica del vostro Trio si attaglia al concetto di libertà?
Il nome BERMUDA viene scelto nel 1986-87. Avevo deciso di “mettere su” un gruppo per poter suonare in autonomia, dopo circa tre anni di “militanza” in varie orchestre Emiliano-Romagnole (eh, si: ho suonato anche il liscio, ed è proprio in una di queste orchestre che ho conosciuto Kamsin, il bassista che ha suonato con noi per 13 anni, dal 1995 al 2008, prima che andasse in un posto migliore…). Eravamo un trio, diventato poi un duo nel giro di poco tempo, e ci scambiavamo delle cartoline postali con Kamsin (il bassista di cui sopra) che nel frattempo era andato a suonare alle isole Bermuda: strano eh…? Quando nel 1995 è nata la formazione dei Bermuda Acoustic Trio abbiamo optato per la scelta di questo nome, proprio perché secondo noi portava bene ed era proprio sinonimo di libertà ed indipendenza. E poi, era davvero simpatico.
La vostra indipendenza musicale è riscontrabile dalla singolare decisione di non legarvi contrattualmente ad alcuna casa discografica. Quali difficoltà o vantaggi avete incontrato nell’organizzazione creativa di 4200 concerti?
Organizzare più di 4200 concerti non è stato per niente difficile: intanto erano altri tempi, la crisi davvero non c’era. E, una volta avviata la band, le richieste per i nostri concerti arrivavano da sole. La vera difficoltà è stata organizzare tutte le date in modo da suonare dappertutto, anno dopo anno, senza dover rinunciare a nessun concerto, vuoi per le distanze, vuoi per la mole di lavoro altissima: nel 1997 abbiamo toccato 272 concerti in un solo anno! E comunque non siamo scesi sotto i 200 concerti annui per tantissimo tempo. Ho dovuto imparare a gestire un’agenzia di spettacoli…
Con oltre 35mila dischi venduti, il vostro lavoro si fregia di importantissimi featurings collaborativi. Stiamo parlando di artisti del calibro di Buena Vista Social Club, Bonnie Tyler, Enrico Ruggeri e Max Gazzè. Come riuscite ad equilibrare il vostro stile con le inevitabili logiche commerciali?
Allora, bisogna tenere ben distinte le collaborazioni, fra quelle “discografiche” e quelle “live”. Abbiamo suonato e collaborato con una varietà di artisti davvero impressionante. A livello discografico abbiamo avuto l’onore e il piacere di condividere progetti artistici con nomi del calibro di Lucio Fabbri (PFM) e Pierluigi Calderoni (Banco Del Mutuo Soccorso), due veri “miti” della nostra gioventù. Questo per quello che riguarda la nostra discografia. Ah, abbiamo anche preso parte ad una compilation che aveva fatto Radio Capital intitolata “Sentieri Notturni”, titolo della trasmissione di Sergio Mancinelli, grande speaker e conduttore televisivo. In quell’occasione ci siamo ritrovati assieme a dei nomi del calibro di Sting, Al Jarreau, Patti Austin, Chaka Khan, Eumir Deodato, Billy Cobham, Gino Vannelli, Jeff Berlin, Diana Ross, Marvin Gaye, Terence Trent D’Arby, Des’Ree, Randy Crawford, Novecento e molti altri. Una gran bella soddisfazione! Per quanto concerne le nostre esibizioni dal vivo le collaborazioni sono state talmente tali e tante che davvero non possiamo ricordarcele tutte, ho paura che scorderei più di un nome. Per quello che riguarda invece le logiche commerciali siamo stati davvero fortunati: ne siamo usciti indenni proprio perché abbiamo fatto tutto da soli senza doverci misurare con nessuno, se non con il pubblico che ha scelto di seguirci.
Musica e comicità. Fiancheggiati da maestri della battuta, quali Maurizio Crozza, Gioele Dix, Neri Marcorè e la Gialappa’s Band vi siete fatti largo nei meandri dell’intrattenimento. Sarebbe possibile quantificare il peso della leggerezza che un artista dovrebbe portare sul palco?
Guarda, posso rispondere alla tua domanda solo facendo un minimo di preambolo. Siamo arrivati nel mondo della TV e della comicità per caso. Nel 2003 ho ricevuto una telefonata da Sergio Conforti (Rocco Tanica, di Elio e le Storie Tese) col quale ci eravamo conosciuti nel 1995. Mi chiese se mi andava di accompagnare Maurizio Crozza in una trasmissione che si chiamava “La Grande Notte di Raidue”, condotta da Gene Gnocchi e che andava in onda credo di Lunedì sera in seconda serata. Da lì è partito tutto: ho iniziato una collaborazione con il nostro Maurizio Crozza e siamo finiti ad esibirci a “Rockpolitik”, la trasmissione di Adriano Celentano che ha sbancato tutti gli indici d’ascolto di tutte le trasmissioni RAI. La collaborazione con Maurizio Crozza è durata più di 10 anni e così ne ho approfittato per far conoscere i Bermuda Acoustic Trio a tutto l’ambiente. Abbiamo iniziato a lavorare con tutti, a partire dalla Gialappa’s Band, che venne a sentirci allo Zelig dove ci esibivamo sempre in quegli anni. Quindi puoi immaginare che anche allo Zelig ci notarono. Ci siamo ritrovati ad inventarci scenette comiche, a fare da spalla a tutti gli artisti che in quel periodo si esibivano lì, o anche semplicemente ad accompagnare cantanti come Malika Ayane piuttosto che Annalisa Minetti, che per caso erano ospiti occasionali degli spettacoli a cui noi prendevamo parte. La Gialappa’s Band ci ha voluto nelle sue ultime due trasmissioni per Mediaset, “Mai Dire Martedì” e “Mai Dire Grande Fratello”. Quindi è chiaro che è impossibile quantificare il peso della leggerezza che ci siamo portati sul palco ogni sera. Posso dirti però che, finito ogni concerto o esibizione il peso lordo era a zero…
Attraverso la realizzazione di “DELFINI” siete stati in grado di coniugare musica, poesia e disabilità. Qual è lo scopo pedagogico che vi prefissate per aggirare gli ostacoli che si interporrebbero fra musica e handicap?
Il progetto “DELFINI” è nato per poter abbattere le barriere mentali che purtroppo tuttora esistono (ma grazie a Dio hanno iniziato a cedere) fra persone portatrici di Handicap e il resto del mondo. Descrivere tutto in poche righe è davvero impossibile però ci provo: ho iniziato a scrivere canzoni ispirate dalle storie dei ragazzi con cui mi confrontavo. Mi sono, immediatamente, reso conto che la barriera non c’era più, che la musica non conosce ostacoli, che il valore di una canzone scritta per “liberarsi” di incubi come il “sentirsi discriminati” era immensamente maggiore di una semplice canzone commerciale. Quindi il passo successivo è stato far cantare direttamente ai ragazzi le canzoni che loro stessi avevano ispirato. Ne è nato uno spettacolo che è in scena da 17 anni e che vede sul palco gli stessi interpreti delle canzoni che le hanno ispirate. In questo modo il pubblico è coinvolto in prima persona da vere canzoni, nate da sentimenti autentici, da reali necessità di liberare se stessi dal fardello dell’emarginazione. Per contro gli stessi interpreti, ricevendo dal pubblico applausi e approvazione, ricevono un’inaspettata esplosione di autostima, sentono sulla loro pelle che la barriera è caduta da ambo le parti. Ma tutto quello che dico non basta: bisognerebbe assistere ad uno spettacolo del “DELFINI” per poter apprendere appieno il significato delle mie parole.
Progetti futuri?
Progetti in cantiere ce ne sono tanti e in continua evoluzione. Ma per scaramanzia (la vita me lo ha insegnato) non ne parlerò. Posso solo dirti che la voglia si suonare non si è mai assopita…