
Le mani…
Olga allungò la mano verso di lui, sfiorando appena il tavolino che li divideva. Aprì il palmo verso l’alto e restò in attesa. Lo sguardo sicuro e dolce. Nemmeno una parola a sottolineare il momento.
Non implorava; semplicemente sapeva che la prima mossa toccava a lei.
Le mani di lui erano riposte nelle tasche del giubbotto. Faceva un freddo cane e lui non amava i guanti. Preferiva tenerle al caldo, così. Non erano mai sole, in quelle tasche, le sue mani; il biglietto del parchimetro, conservato oltre scadenza, qualche spicciolo, per averlo a portata di mano per il tipo all’uscita del supermercato, e persino qualche graffetta dimenticata da chissà quanto tempo. Aveva la mania dell’ordine e raccoglieva bollette, banconote, e persino i fogli su cui appuntava i pensieri che gli giungevano durante il giorno, in tante mazzette, fermandole tra le anse di una graffetta, una versione fricchettona del più nobile fermasoldi in oro che vedeva sfoderare ai suoi amici.
Lui era sempre stato easy; nei modi, nel linguaggio, nel vestiario. Easy. Dicevano loro.
Essenziale, minimalista. Concreto. Diceva lui.
Forse se non li avessero uniti anni di militanza su quel campetto da calcio sul litorale o le chiacchierate notturne sui gradoni del liceo fumando MS comprate “a società”, forse se non avessero respirato quell’aria da sessantottini che avviluppava tutti come una sciarpa profumata di giovinezza, forse, non si sarebbero scambiati nemmeno un’occhiata, lui e quei tipi dei suoi amici, ma, dopo tutto quello che avevano condiviso, nemmeno le loro arie da professionisti arrivati – Ma arrivati dove? Si chiedeva spesso – avrebbero potuto separarli.
Smise di giocare con la graffetta e tirò fuori una mano, lentamente.
Con la coda degli occhi, lei seguì il suo movimento.
Erano seduti uno accanto all’altro, in un angolo del bar che frequentavano di tanto in tanto prima di quella lite furiosa che li aveva allontanati. Riparati dal calore di una stufa, osservavano il mare in lontananza. Il sole tramontava e spandeva il suo colore nel cielo.
Sul tavolino, le tazzine sporche del caffè appena consumato.
Allungò piano la mano verso di lei e le sfiorò le dita della mano destra. Si fermò solo un attimo e prese a rotearci intorno, come soleva fare con la graffetta, aspettando un suo movimento. Lo sguardo perso nel vuoto, la mancava volutamente.
Lei lo lasciò fare per un po’.
Improvvisamente girò lo sguardo sul suo viso e glielo puntò addosso. Ancorò le sue dita a quelle di lui e le tenne strette per un po’. Solo allora lui si volse verso di lei.
L’aria malinconica che lo accompagnava non riusciva a dissolvere la dolcezza del suo sguardo. La vita trascorsa ne aveva appesantito il volto ma il tempo nulla aveva sottratto alla bellezza giovanile che riappariva ogni volta che sorrideva.
Il suo sguardo era distante, diffidente. L’aria intorno a loro era gelida e non era solo a causa del freddo invernale.
Improvvisamente lei allentò la tensione. Lui delicatamente si liberò dalla presa, passò la mano su quella di lei e l’avvolse. Era un tocco delicato. Era un brivido caldo che risaliva lungo il braccio e le toccava l’anima.
Lei continuava a sorridergli e non parlava.
Ripensava ad una storia, ascoltata tanto tempo prima.
C’era un bimbo in quella storia, un bimbo dell’est, e c’erano dei genitori adottivi che erano volati fino a lui per portarlo via con loro, dargli una possibilità, rimettere in moto la sua vita che si trovava ad un binario morto.
Lì lo avevano lasciato i suoi genitori biologici, e lì lo aveva trovato, anni prima, una coppia di genitori che desiderava un figlio. Lo avevano scelto e portato via con loro. Ma qualcosa era andata storta, e, senza farsi tanti scrupoli, loro, lì lo avevano riportato, e la sua vita si era fermata ancora una volta.
C’era freddo. Intenso. Da togliere il fiato. Da fermare il cuore. Ed ora erano ancora lì, il bambino e i suoi nuovi genitori.
Il bambino stringeva forte la mano della responsabile del centro di accoglienza nel quale viveva e quando si era trovato davanti a sé quei due tipi, non li aveva nemmeno degnati di uno sguardo; era rimasto con gli occhi fissi in basso, sul pavimento. Loro gli erano andati incontro sorridendo e poi gli avevano mostrato un peluche, un buffo orsacchiotto dal visino simpatico. L’aspirante mamma glielo aveva allungato con poche parole, che tanto non si capivano – È tuo. Lo abbiamo comperato per te.
Era buffo quel peluche e il bambino lo aveva guardato e, per un attimo, era stato fermo sui suoi passi, come se stesse chiedendosi cosa fare. La sconosciuta sorrideva ed era un sorriso dolce, rassicurante quanto il viso del peluche. Allora si era mosso fulmineo verso di lei, glielo aveva quasi strappato dalle mani ed era corso via a gambe levate, lasciandoli lì imbambolati e delusi
– È fatta – aveva detto la responsabile del centro. –Vi ha accettato come genitori. È pronto a fidarsi ancora.
Chissà perché le era ritornata in mente quella storia. Chissà perché….
Si alzò, lei, tenendogli ben stretta la mano – Andiamo a casa – disse – Si gela, qui.
Questo racconto straordinario mi ha toccato il cuore e mi ha commossa, complimenti 😊
Sono molto felice di essere riuscita a regalarle quest’emozione.💕