«Per essere impossibili, basta essere perfezionisti»

(Eich)

Quella mattina le parlarono di perfezione.

Si innervosì.

E come ogni volta in cui si innervosiva, ricorreva alle etimologie per occupare il pensiero, costringersi a tacere in un momento in cui, evidentemente, sarebbe stato del tutto inutile sprecare fiato e rifugiarsi in una cosa che non amava avere, ma che a volte, suo malgrado, aveva: la ragione.

Il termine “perfezione”, pensò, risale al latino perfectio, che a sua volta viene da “perfetto”, perfectus. I due termini nascono da perficio, ossia, “finire, portare a termine, portare a compimento”. Ergo, la perfezione starebbe nell’essere compiuto.

Il concetto, però, per dovere di precisione, andava fatto risalire agli antichi greci, per i quali perfectus era telos, riferito ad un oggetto concreto, una gara perfetta, un guerriero perfetto. Dunque, per i greci, non c’erano le tendenze astratte che i latini davano all’idea di perfezione, tant’è che l’etimo greco veniva dai contemporanei inteso più come completezza, che come perfezione in sé.

Lei sapeva, inoltre, che tanta parte del pensiero sulla perfezione necessitava di andare a scomodare Aristotele il quale, per complicarsi e complicare a tutti la vita (o spiegarla, a voi la scelta), aveva ben chiarito che “perfetto” era: ciò che è completo e contiene tutte le parti necessarie; ciò che è così buono che niente di simile potrebbe essere migliore; ciò che ha raggiunto il suo scopo.

Bene, stava per infilarsi nel dualismo di Tommaso d’Aquino e, peggio, nei mondi di Leibniz: il mondo terra, secondo lui, era il migliore e non lo pensava affatto perfetto. Senza, ancora, stare a dire che per molti versi era stato, altresì, ritenuto che la perfezione fosse rintracciabile esattamente nel suo opposto. Ciò che era perfetto non doveva avere spazio per migliorarsi e crescere, quindi doveva essere in qualche modo manchevole. Perfezione, allora, era imperfezione per non mancare della possibilità di migliorare.

Morale della favola, tornando al momento del nervo scoperto toccato: voi siete davvero perfetti.

Anatema, eresia, abominio! Vergogna!

Se era vero, com’era vero, che Madre Natura aveva un equilibrio perfetto ed in essa, per esempio, le leonesse lasciavano morire i cuccioli più deboli e li cacciavano quando cercavano il latte e se i leoni adolescenti vessavano i piccoli con giochi pesanti fino a ferirli duramente, se nonostante ciò il branco di quella specie felina comunque era e restava il branco reale, allora, cosa poteva mai esserci di compiuto in un essere umano, talmente risolto da poter essere definito perfetto?

Se finanche madre natura aveva delle perfezioni per dimostrare di essere l’immagine di Dio, ma aveva anche dei difetti, per mostrare che ne era solo un’immagine, quale superbia c’era in una tale, superficiale, affermazione?

Quale grosso errore era contenuto in colui che pensava di essere perfetto?

Quale inenarrabile equivoco si era creato in colui che, pur non ritenendosi perfetto, si illudeva di avere cose, legami, momenti perfetti?

Quale ignoranza trasudava da coloro che, guardando i propri simili, ritenevano di poterli pensare come perfetti?

Soprattutto si domandò, quale incoscienza?

E così, l’illuminazione, che come sempre arrivava in qualche modo dalla Bibbia. C’era ben poco da fare, chiunque l’avesse scritta o ispirata, doveva veramente essere Perfetto e, se tanto le dava tanto, non doveva essere stato un uomo.

Beati gli umili, perché loro sarà il Regno.

E la Bibbia, era risaputo, non andava mai letta così come giaceva, richiedeva un potere interpretativo non indifferente e, peraltro, per essere sopravvissuta ben più a lungo dei duemila canonici anni dopo Cristo, andava adattata ai contesti e… sorpresa… esisteva sempre un modo per leggerla e trovarle un senso.

Beati gli umili, quindi coloro che sapevano di non poter essere perfetti e di non poter possedere niente di perfetto: gli umili, coloro che ne erano coscienti con buona pace di ciascuno dei loro sensi, con cuore sereno. Quand’anche nella vita avessero dovuto inciampare nella possibilità concreta di dover improvvisamente rendersi conto che ogni cosa considerata perfetta, altro non era che un fragilissimo castello di cristallo, avrebbero sofferto, ma non sarebbero periti. La sorte li avrebbe colti preparati.

Ecco,  loro sarà il Regno. Sarebbero stati fatti salvi dalla loro stessa superbia, poiché la consapevolezza dell’incompiuto umano li avrebbe resi forti.

In altri termini: se mai il castello si fosse infranto di colpo nelle loro mani  e sotto il peso di un qualche terremoto, i tagli non sarebbero stati così profondi da causare una cancrena e una morte.

Sarebbero stati tagli, ci sarebbe voluto tempo, ma sarebbero guariti.

Beati gli umili, pensò e ripensò ancora in loop, poiché che agli uomini piacesse o meno, la perfezione no, non era proprio del loro mondo.


FontePhoto by Mikel Parera on Unsplash
Articolo precedenteAfghanistan…
Articolo successivoLa scuola cattolica
Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.