Se alcuni muri parlassero, avrebbero storie da raccontare e se lo scrittore fosse invece un artista contemporaneo che usa come tela i muri dei palazzi di grandi città come Londra e Bristol, dipingendoli di nascosto, senza mostrarsi al mondo, celando la sua identità, ecco che quelle tele possono diventare il manifesto, spesso scomodo, di istanze pacifiste ed anticapitaliste.

Si chiama Bansky e l’ho conosciuto durante un viaggio in Palestina.
Il turismo religioso classico difficilmente si spinge fin sotto il muro di separazione tra Israele e Palestina; i turisti, se ci arrivano, ci arrivano forse anche per lui, per i suoi disegni murali conosciuti in tutto il mondo.
Del resto è abbastanza facile attraversare il check point se sei a bordo di un autobus granturismo, la milizia israeliana chiude un occhio e in un attimo si è dall’altra parte del muro, dalla parte sbagliata o giusta, dipende.
Così come i taxi locali palestinesi che si danno un gran da fare a portare i turisti a visitare le sue opere, sebbene siano considerate atti vandalici e quindi illegali dal popolo israeliano.
Ma quanto è illegale compiere atti vandalici su una parete, quando il muro stesso è stato ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia?
Ecco che la barriera di separazione diventa anche una grande tela, parlante.
Anche noi ci arrivammo con un autobus granturismo, del resto eravamo una scolaresca, un paio di professori e qualche viaggiatore alternativo non bene identificato.
Io, per esempio.
Ma ci arrivammo dopo aver percorso a piedi il checkpoint 300 di Betlemme, alle 4 di mattina, scossi dal freddo e dalla paura per dover/voler attraversare quei 550 mt di gabbia di ferro che consentono ogni giorno ai palestinesi di accedere ai territori israeliani dopo aver superato ore ed ore di code e controlli serrati tra tornelli e metal detector.
Era buio ed avevamo sonno, ma la paura e l’adrenalina ci tenevano svegli. Un paio di studenti all’ultimo momento hanno rinunciato, la paura era davvero tanta, avevamo con noi una classe di studenti ancora minorenni e noi adulti ne avevamo la responsabilità fisica, ma anche formativa ed intellettuale.
Cosa ci sia di intellettuale ad attraversare a piedi, spinti come burattini, accalcati tra uomini già stanchi all’alba per la quotidiana umiliazione di dover sopportare un tale calvario per lavorare… non lo so. So che noi lo abbiamo percorso quel tunnel di ferro e con loro abbiamo respirato l’aria pesante di quel cielo sopra di noi che puzzava di disumanizzazione.
Questa era la nostra gita, il viaggio di istruzione che ci stava insegnando quello che i libri non possono raccontare fino in fondo.
Giunti oltre il checkpoint eravamo in terra di Israele, un rapido caffè, un grande respiro, e via di nuovo al check di ritorno, via di nuovo in Palestina.
A Betlemme intanto si era fatto giorno e superato l’ultimo tornello ecco che le nostre figure umane si proiettavano su questo alto muro dinnanzi a noi.
Un senso improvviso di vuoto, di cupa angoscia, di claustrofobia, di una nuova paura che non immaginavo dopo quella appena superata.
Perché più che le barriere, gli spazi confinati, mi hanno sempre fatto paura il vuoto, la profondità. Oggi sono messa di fronte a nuove dimensioni, nuovi timori ai quali non sono abituata.
Da lontano il senso di claustrofobia sfuma, ma il profilo di questo abbraccio grigio che si infila in maniera scomposta tra le case di Betlemme ha qualcosa di sbagliato, di terribile.
Il muro, eccolo, come un serpente lungo 750 km, una tela per raccontare, per testimoniare, per condividere pensieri.
Dove c’è politica ci sono sempre state scritte sui muri.
Così nei territori palestinesi, la street art ha assunto da alcuni anni un ruolo particolare. Il muro è diventato un’enorme tela per artisti locali e di tutto il mondo, fra i quali il più famoso è Bansky uno dei primi a venire. Accanto a messaggi di pace, o immagini ironiche o traboccanti speranza, ci sono scritte politiche più elementari, slogan che invocano la Palestina libera, frasi a volte disperate, ma anche messaggi violenti, incitamenti alla ribellione violenta, i volti santificati dei protagonisti della lotta armata. Queste pareti parlano una babele di lingue affascinante e dolorosa, confusa e contraddittoria, ma che spesso ha un volume e una capacità di farsi capire, per me, molto più alta di quelle delle armi.
Le immagini di Bansky hanno il potere di trasmettere una serie di sensazioni, una storia, in un linguaggio universale che non richiede traduzione ne spiegazione.
Ma il rischio che ci si potesse fermare alla superficie o che addirittura gli effetti dei messaggi sul muro potessero essere negativi lo aveva forse già compreso lo stesso Banksy, se è vero questo dialogo con un vecchio palestinese che lui stesso racconta:

Old man: You paint the wall, you make it looks beautiful.
Banksy: Thanks
Old man: We don’t want it to be beautiful, we hate this wall, go home.
Anziano:Dipingi il muro, lo rendi bello
Bansky: Grazie
Anziano: Non vogliamo che sia bello, odiamo questo muro, vattene.

I grafitti di Bansky sono stati cancellati parecchie volte nella storia della street art palestinese.
Nel 2007, ad opera degli stessi palestinesi, offesi dalla satira delle sue pennellate, satira a volte pesante, ma esaustiva della loro condizione di schiavi.
E recentemente, nel 2014, in occasione della visita in Terra Santa di Papa Francesco, il grande muro è tornato ad essere imbiancato e ripulito da quei simboli di guerriglia ma anche di pace.
Ma la “street art” nei territori palestinesi esiste da sempre. Non si tratta di cultura metropolitana, ma di tradizione calligrafica. Perché era sui muri che, prima di Internet e dell’avvento dei social network, venivano lasciati messaggi politici, slogan e appuntamenti per scioperi della fame. O anche solo annunci di eventi comunitari e familiari: un matrimonio, la morte, l’Haij, il pellegrinaggio. Poi le effigi dei Raìs, i ritratti degli shaheed, i “martiri”, come vengono chiamati quelli che sono stati uccisi o che sono morti per la causa palestinese.
Oggi quel muro ripulito, imbiancato, è di nuovo tela madre.
Pronto per altre opere rivoluzionarie.


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Classe 1964, piemontese di Asti, legata affettivamente ed intellettualmente alla città di Andria. Sono un'infermiera che a bordo di una panda compie viaggi di cura e di relazioni umane utilizzando la narrazione come canale comunicativo e terapeutico. In un mondo sempre più frenetico e in una sanità sempre più medicalizzata la vera rivoluzione è prendersi tempo, il tempo della relazione, dell'aiuto, dell'ascolto, della condivisione. Scrivo per passione e per necessità. Ogni viaggio è un romanzo sulla punta delle dita, ogni storia è per me una pagina bianca su cui rielaborare un percorso di cura sia per la persona sofferente che per me stessa. Promuovo e sostengo nel quotidiano un modello di vita slow e nell'attività professionale adotto un modello sistemico di cura e relazione secondo la Slow Medicine.