Il 29 novembre, come già anticipato da Odysseo, ricorreva la Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese. Nell’occasione, a Lucca, si è celebrato un convegno che intendeva rispondere a due semplici domande: perché l’inumana occupazione israeliana continua e uno Stato Palestinese deve ancora nascere? E perché l’ONU assiste impotente e il mondo vive con indifferenza?

Il Convegno, intitolato Homeland: quale solidarietà per il popolo palestinese, ricordava anche i 10 anni della campagna Ponti non Muri, lanciata da Pax Christi, il 1° Marzo 2004, giorno in cui iniziava la costruzione del Muro di apartheid, a Betlemme.

Tra i relatori, spiccavano nomi di eccellenza e Odysseo ha colto l’opportunità di avvicinarne due: Luisa Morgantini e Nandino Capovilla.

Chi non conosce l’impegno di Luisa Morgantini per la difesa dei diritti umani dei Palestinesi e la costruzione di una pace giusta in quella terra? Basterà ricordare che la Morgantini, eurodeputata sin dal 1999, membro della Delegazione per le relazioni con il Consiglio legislativo palestinese, è stata tra le fondatrici della rete internazionale delle Donne in nero contro la guerra e la violenza, ha ricevuto il premio per la pace delle donne in nero israeliane e il premio Colombe d’Oro per la Pace, di Archivio disarmo. Infine, è una delle 1000 donne al mondo ad essere stata candidata al Premio Nobel per la pace.

Dal canto suo, don Nandino Capovilla, già assistente nazionale di Pax Christi, è il Coordinatore Nazionale di Ponti Non Muri, un infaticabile pellegrino, assetato di giustizia, curatore di Bocchescucite, un sito e una newsletter che quindicinalmente raggiungono migliaia di persone.

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[Nella foto: don Nandino Capovilla; sullo sfondo, il Muro di apartheid israeliano]

Don Nandino, lei è da sempre impegnato in difesa dei diritti umani degli ultimi tra gli ultimi: in questo caso, dei Palestinesi. Siamo grati a lei e all’on. Morgantini: in una giornata come questa, avete trovato del tempo per rispondere alle nostre domande…

Grazie a voi. Grazie per questa opportunità di dar voce ai diritti di questo Popolo. Alla televisione, tutti i giorni si parla di Israele, però la Giornata Onu e l’intero 2014, Anno Internazionale della Solidarietà con il Popolo Palestinese, ci ricordano che i diritti umani dei Palestinesi sono, ogni giorno, calpestati. Ecco che qui a Lucca stiamo vivendo un grande evento internazionale per ascoltare e dare forza a questo appello alla comunità internazionale e a ciascuno di noi, affinché finalmente possiamo chiederci: ma cosa accade in Palestina? Cosa accade a Gerusalemme?

Cosa accade, don Nandino?

Un’enorme ingiustizia che attende ancora di essere conosciuta.

I Media hanno la loro responsabilità?

È così. La verità dei fatti non è raccontata. Purtroppo i Media inseguono quelle logiche per cui, ad esempio, tutto ciò che accade nei Territori Occupati viene reso sempre con eufemismi. Si parla di “scontri”, di “violenze”: non si ricorda mai il grande impegno della popolazione palestinese per una resistenza nonviolenta. Così come non si ricorda che anche da parte del popolo israeliano c’è impegno e sete della pace. Qui a Lucca abbiamo avuto modo di ascoltare un grande giornalista israeliano come Gideon Levy, che testimonia quanto anche gli Israeliani, per il bene dello stesso Israele, abbiano bisogno di far luce su queste ingiustizie.

Proprio Gideon Levy ha scritto su “Haaretz”, che Israele non vuole la pace…

Sì. Ed è impegnativo scriverlo per il proprio Paese. Questo ci aiuta a coltivare un senso critico che sembra non essere assolutamente di moda. Ci adeguiamo al pensiero comune ed invece dobbiamo incominciare a ragionare con la nostra testa.

On. Morgantini, ha ragione don Nandino? Quanto è importante superare luoghi comuni e pregiudizi, tipo quello per cui si ritiene che i Palestinesi siano tutti terroristi?

È di una importanza fondamentale. Guardi, la resistenza popolare nonviolenta palestinese è molto forte ed è una delle speranze della Palestina. Una resistenza che si manifesta nei Territori Occupati, laddove è stato costruito il Muro, dove la loro terra è stata sottratta per darla ai coloni ebrei. Israele attacca fortemente queste forme di resistenza nonviolenta perché non gli permettono di recitare il ruolo della vittima. Israele vuole attentati. Vuole essere la vittima della situazione. Ci sono invece le vittime vere e la prima vittima è il Popolo Palestinese che vive ormai da 47 anni sotto occupazione militare.

Onorevole, Israele vuole una Terza Intifadah?

Sempre Israele ha voluto una popolazione palestinese che risponde con la violenza all’occupazione. È quanto gli serve per legittimare la sua politica di occupazione e oppressione. Certo che a Israele farebbe comodo una Terza Intifadah e non v’è dubbio che sta facendo di tutto perché si sollevi. Chi non la vuole, però, è proprio il popolo di Palestina. Anche se la reazione di molti è positiva se vi sono attacchi militari contro soldati o coloni, nessuno vuole rivivere la tragedia dei bombardamenti di Gaza o le distruzioni degli arresti, gli assassinii compiuti dall’esercito israeliano nella seconda Intifadah. In realtà, i Palestinesi vivono ogni giorno in una loro intifadah; mi riferisco alla loro resistenza nonviolenta quotidiana: alzarsi ogni giorno sapendo che i soldati israeliani possono arrestare i loro figli, andare al lavoro, costretti a superare i check point, e continuare ogni giorno a creare cultura, a ricostruire. È questa la vera intifadah.

Proprio in questi giorni in cui si assiste ad una escalation della violenza il Governo Israeliano approva una legge che definisce Israele “Stato ebraico”. Cosa significa questo?

È un ulteriore passo avanti in direzione del Sionismo estremo. Per fortuna, su questo fronte, c’è contestazione anche all’interno di Israele. In realtà, proporre questa nuova formula significa volere un attacco al 20% della popolazione israeliana che è una popolazione arabo-israeliana, palestinese. Sono i cosiddetti “arabi del ‘48”, profughi sulla loro stessa terra. È quindi una legge feroce, ma feroci sono anche gli “8 punti” in discussione su cosa fare contro chi compie un atto terroristico. Si dice che, in ritorsione, si dovrà demolire la casa dei parenti. Se un attentatore muore, cosa che si verifica puntualmente, il suo corpo non sarà restituito alla sua famiglia, ma seppellito in luogo anonimo e sconosciuto. E se dei ragazzi lanciano le pietre, potranno essere condannati fino a dieci anni. Altro che Medio Evo! Torniamo agli inizi, quando c’era solo vendetta, occhio per occhio e dente per dente. È una situazione davvero grave che bisogna fermare per salvare Israele da una morte morale e da un razzismo che cresce anche al suo interno, non soltanto verso i Palestinesi.

Dunque, onorevole, che speranza rimane per le “colombe della pace”?

Guardi, come dice Mahmoud Darwish, che è stato un grande poeta palestinese, siamo “costretti alla speranza”! Bisogna credere, ma dobbiamo fare in modo che questa nostra speranza sia concretizzata con le nostre azioni, con le nostre lotte. Ad esempio, i Comitati Popolari stanno lottando insieme a internazionali, a israeliani e palestinesi, perché sanno che l’Occupazione militare uccide tutto e tutti. La speranza bisogna coltivarla, ma è certo che occorre far cambiare politica ai nostri Governi, all’Unione Europea, agli Stati Uniti, ai Paesi Arabi e far capire che davvero basta! Il Popolo Palestinese non può continuare a vivere sotto occupazione militare.

Onorevole, c’è, dunque, una precisa responsabilità della comunità internazionale in questo ambito?

Assolutamente sì. Degli Stati Uniti, in primo luogo, che, esercitando il suo diritto di veto all’ONU, lascia che Israele continui a fare il brutto e il cattivo tempo. E poi di tutti gli altri: a cominciare dall’Europa. Anche l’Italia ha la sua bella fetta di responsabilità…


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