
Emmaus o Babele?
Il clima vacanziero imperante sembra che abbiano preso il sopravvento sulle paure che hanno caratterizzato i mesi passati. Però restano impresse nella memoria quelle morti di massa, bruscamente stroncate, causate dal coronavirus e, con un rituale superficiale, seppellite frettolosamente per impedire infezioni.
Una delle caratteristiche peggiori della morte di massa è la scomparsa delle persone senza lasciar traccia: sono soltanto parte di numeri ridotti a statistiche citate nelle monotone conferenze-stampa; il loro morire è stato privato delle caratteristiche di un contatto dignitoso con gli altri. Costoro, morti nel caos, non si possono dimenticare. Essi chiedono memoria, proprio perché la loro vita non si è realizzata, ma è stata stroncata rendendoci tutti più poveri. All’interno delle comunità e sotto la guida di persone sensibili ai riti sorge un appello creativo alla narrazione. La sfida suprema alla fede e alla speranza non è lasciare le vittime di una morte di massa, o senza senso, alle benedizioni celesti, ma è dare alla loro memoria, ai loro nomi, alla loro vitalità un posto nel divenire della società e di un mondo umano qui ed ora.
I periodi di “quarantena” sono emblematici. Lo smettere di produrre, e così rivedere la nostra relazionalità, sancisce un grosso interrogativo sulla competizione economica globalizzante. Questa è legata a contraddizioni e conflitti provocati dalla sfrenata volontà di profitto a qualunque costo, riducendo l’esistenza a un marketing: è un vero cataclisma sociale!
Il dovere di annunciare e di lottare per un altro mondo non nasce dalla posizione filosofica o religiosa di negare il carattere assoluto del mondo attuale, ma principalmente dalle gravi crisi sociali (miseria, disoccupazione strutturale, esclusione sociale, violenza, ecc.) e dalla crisi ambientale generate dall’attuale modello di globalizzazione economica. L’attuale sistema economico-sociale è ingiusto e insostenibile.
Abbiamo bisogno di un’economia diversa… Ma la nuova economia politica si raggiungerà solamente quando prevarrà un’altra scala di valori. Invece dello sfrenato profitto del singolo e dell’impresa deve prevalere la solidarietà, la partecipazione e la condivisione.
Ignacio Ellacuria, gesuita assassinato dall’esercito salvadoregno nel 1989, docente e rettore all’Università “José Simeón Cañas” di El Salvador, aveva elaborato l’idea di una “civiltà della povertà”, formulazione così provocatoria da indurre altri a riformularla come “civiltà dell’austerità condivisa”. Ellacuria insisteva che l’attuale civiltà della ricchezza (e della priorità del capitale sul lavoro) non ha civilizzato l’umanità e non ha reso possibile la “mensa condivisa”; ha benedetto invece la tavola di Epulone. Non ci si può aspettare quindi che “dall’alto”, “dall’abbondanza”, “dalle democrazie industriali” nasca una realtà umana, ma solo “dal basso”. In questo senso dialettico, profetico e utopico, egli aveva fiducia nella “civiltà della povertà”.
Quali sogni allora alimentano la nostra speranza? Essi sono l’humus che permette continuamente di progettare nuove forme di convivenza sociale, dove la “re-lazione” e la complementarietà con tutti diventano una esigenza vitale. Sarà per questo una civiltà che darà un posto centrale alla “re-ligione” (da re-ligare) come istanza che si propone di ri-legare tra loro tutte le cose, perché le si avverte come preziose. Poco importa il tipo di religione: purché essa sia quell’esperienza radicale che riesce a “ri-legare” tutte le cose e a dar vita a un senso di integrazione necessaria in cui ognuno si senta prezioso.
Qui si impone una indicazione: seguiamo la via di Emmaus della condivisione e dell’ospitalità verso tutti gli abitanti della nave spaziale “Terra”, oppure scegliamo l’esperienza di Babele, della tribolazione e della desolazione? Questa volta non ci sarà un’arca di Noè a salvare alcuni e lasciar perire tutti gli altri: o ci salviamo tutti o periremo tutti.
Per una comunità, il futuro e la speranza per un mondo diverso sono riposti nella ricerca della “fionda di Davide” per intercettare e recuperare quelle risorse locali di speranza in mezzo a quella situazione critica che appare, in questo momento, per se stessi e per l’intera collettività.