Una carestia flagellava la città di Iolco, in Tessaglia, su cui regnava Atamante, già sposo della defunta Nefele, che gli aveva dato due figli, Elle e Frisso. Ino, la nuova sposa di Atamante, accecata da gelosia, disse al re che l’unico modo per allontanare la carestia da Iolco era il sacrificio supremo di Elle e Frisso a Zeus.

Ma Nefele, che significa “nuvola” e in una nuvola si era trasformata, inviò dal cielo un ariete volante e dal vello d’oro, su cui i due bimbi montarono per essere condotti in salvo, nell’estremo Oriente. Le loro disavventure non era finite: una violenta tempesta scaraventò Elle in mare e il punto in cui precipitò prese il nome di Ellesponto.

Frisso riuscì invece a tenersi aggrappato al vello dell’ariete e raggiungere in volo la Colchide, regione lontanissima e sconosciuta ai Greci. Per gratitudine a Zeus (e un po’ meno all’ariete), Frisso gli sacrificò l’animale che lo aveva tratto in salvo e ne regalò il prezioso vello d’oro al re di Ea, che lo aveva accolto. Un drago avrebbe vegliato sulla preziosa reliquia.

Passa del tempo e diviene re di Iolco l’usurpatore Pelia, che aveva fatto esiliare suo nipote, il legittimo erede, il piccolo Giasone. Questi viene allevato dal centauro Chirone, che cura la sua preparazione fisica, morale, religiosa e militare. A vent’anni è pronto per tornare in patria e rivendicare il trono paterno. Nel viaggio, per attraversare un fiume, perde un sandalo e giunge in patria calzando una sola scarpa: il particolare spaventa lo zio, re Pelia, al quale l’oracolo aveva predetto di guardarsi da un uomo con ai piedi un sandalo solo.

Giasone non va per le lunghe e si presenta a corte come legittimo erede al trono, ma Pelia pone una condizione: sarebbe diventato re, se avesse conquistato il vello d’oro. Giasone accetta e decide di sfidare il mare: un evento che segnava la nascita della navigazione e che Dante avrebbe così celebrato:

«Un punto solo m’è maggior letargo che venticinque secoli a la ’mpresa che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo» (Paradiso, XXXIIII, 94-96).

Argo era infatti il nome della nave fatta da costruire da Giasone, che le diede questo nome proprio in onore del carpentiere che la realizzò.

Poi, Giasone chiamò a raccolta i più grandi eroi greci: Castore e Polluce, figli di Zesu, Orfeo, l’impareggiabile cantore, Ercole, il più forte e valoroso, e anche il padre dei medici, Esculapio. Sarebbero passati alla storia come “Argonauti”, i marinai della nave Argo.

Giorni e giorni di navigazione, con tappe nella Magnesia, nell’isola di Lemno, sull’estrema punta del Chersoneso, fino ad arrivare in Tracia, dove incontrano Fineo. È questi un indovino che, per aver abusato del suo potere, non può più toccare cibo: non appena prova a portarlo alla bocca, le Arpie si precipitano su di lui e glielo strappano via. Ma gli alati figli di Borea, che accompagnano gli Argonauti, le volgono in fuga e Fineo, in segno di gratitudine, svela a Giasone e ai suoi le insidie che ancora li attendono presso le rupi Simplegadi, nello stretto dell’Ellesponto. Le rupi Simplegadi sona una sorta di iceberg di pietra che, prive di base, vagano sulle acque scontrandosi tra di loro e producendo gorghi vertiginosi: non sarebbe stata necessaria la perizia di Schettino per far affondare Argo. Fineo suggerisce anche lo stratagemma per superare indenni il pericolo: gli Argonauti avrebbero dovuto lanciare in volo una colomba; se questa avesse attraversato incolume le rupi, la nave avrebbe potuto proseguire la navigazione. In caso contrario, avrebbe dovuto attendere il momento favorevole.

Giasone invoca Atena la quale ordina a Nettuno/Poseidone di lasciar passare Argo, la colomba volta indenne tra le rocce e anche alla nave si spiana il passaggio: per la prima volta un’imbarcazione supera lo stretto dei Dardanelli, lascia l’Europa ed entra nel Mar Nero, in Asia.

Gli Argonauti hanno ormai campo libero. Superano le insenature del Ponto, la terra delle Amazzoni e quella dei Calibi, fino ad ammirare da lontano le cime del Caucaso. Approdano in Colchide, presso la città del re Eeta, che, in onore alla “filoxenìa” (l’ospitalità per gli stranieri: un vero e proprio obbligo morale per gli antichi…) li accoglie con tutti gli onori del caso. Durante il banchetto di benvenuto, Giasone conosce la bellissima figlia di Eeta, la maga Medea, e, interrogato, dal re, svela lo scopo del suo viaggio.

Il re è pieno di sdegno, ma non può impedire a Giasone di esperire il suo tentativo: attirerebbe su di sé il castigo degli dei. Pone, però, anch’egli una serie di condizioni: avendo a disposizione un giorno solo, Giasone dovrà domare due tori terribili, dalle cui narici escono vampe di fuoco, aggiogarli, arare un campo e seminare dei denti di drago; ne nascerà una genia di giganti che Giasone dovrà eliminare per dimostrare di essere un eroe.

Giasone accetta impavido e il suo coraggio colpisce Medea che se ne innamora all’istante e decide di aiutarlo. Gli dona così un unguento che rende la sua pelle impermeabile alle fiamme e gli svela una serie di stratagemmi per uscire indenne dalla prova che si accinge ad affrontare. In particolare, gli suggerisce di scagliare un masso nel mezzo del campo arato, una volta che fossero sorti i giganti i quali, ingannati, avrebbero così incominciato a combattere tra loro e ad annientarsi a vicenda.

Giasone supera dunque anche la prova imposta da Eeta e può così finalmente affrontare il drago che custodisce il vello d’oro. Anche in questo caso l’aiuto di Medea è fondamentale: la maga intona una ninna nanna così dolce che il drago si addormenta e Giasone può finalmente impadronirsi del vello tanto agognato.

Mission impossible compiuta. Eeta vorrebbe ancora opporsi, ma, di notte, mentre la città dorme, gli Argonauti salpano in silenzio.

Ma di quello che sarà tra Giasone e Medea vi racconteremo nella prossima puntata…