«Signore, lasciami essere la metà dell’uomo che il mio cane pensa io sia»

(citazione anonima)

L’autobiografia è il più arduo dei compiti a cui ciascuno potrebbe giungere: è spesso un processo di cura complicatissimo poiché richiede una tale dose di sincero coraggio e di coraggiosa sincerità da far impallidire chiunque voglia pensare, davvero, di raccontarsi.

È stato uno studio lungo, faticoso, metodico ed approfondito il mio; l’ho usata partendo dalla narrazione quale metodo educativo, l’ho studiata, l’ho girata e scandagliata, l’ho descritta, suggerita, portata in campo, messa a frutto. Ma sempre proposta a terzi.

Pensateci, per fare autobiografia è necessario essere capaci di non tralasciare niente di quanto ci appartenga e cento volte su cento, noi non parliamo di quello che ci appartiene: l’ho già detto, nessuno farebbe menzione dell’aria stessa che respira. E non è un fatto di riserbo, semplicemente di certe cose non risulta necessario dire, nemmeno ci pensiamo, perché sono con noi, in noi, per noi: noi.

Mi è venuto in mente stamane: quasi nessuno sa che ho un cHane (anche lui con l’Acca), eppure non è mica un piccolo pintcher che passerebbe, volendo, inosservato.

NatHan si chiama, è un labrador color cioccolato che pesa solo 40 kg, in piedi è più alto di me, ha gli occhi color oro più belli che io conosca, quelli che non devo mai guardare perché mi convincerebbero anche a buttarmi dal balcone se credessi al povero me sono tristissimo che sembrano esprimere fisiologicamente. Quando hai un labrador la prima regola che impari è esattamente quella di non credere mai all’espressione delle sue palpebre: l’intenzione sta nella coda. E la sua è lunga, alta, tronfia e quasi mai ferma: santa pazienza gli tzunami che muove con quell’arto sono inenarrabili!

È con me dacché aveva tre mesi; nemmeno allora riusciva ad essere piccolo. Una tempesta! E un’ombra. Mi ha scelta come suo riferimento, pur essendo una specie di nutella pelosa con quasi chiunque e non mi ha mai mollata di piede. Ma testualmente. Anche adesso, mentre scrivo e mi rendo conto di non parlarne davvero mai, dove pensate che sia? Addormentato sui miei piedi. In sostanza è prolungamento del mio corpo. Ho due braccia, quattro zampe ed una coda. Tutt’uno.

Gestirlo? Un delirio. Del resto è prolungamento mio, mica di Madre Teresa (magari!) e se tanto mi dà tanto… potete credermi, si fa una fatica esattamente da chani. Peso poco più di lui, insegnargli che sono io che lo porto a spasso e non il contrario è stato un tantinello arduo e non se lo ricorda proprio sempre, nonostante i suoi quattro anni ormai suonati.

Non ha mai focalizzato che non è nato per essere minuto e vuole stare in braccio: finisce che occupa tutto lo spazio delle mie gambe solo con il muso.

Se è intelligente? Io direi che è stronzHo. Provate a parlargli tenendo in mano una sola briciola di pane, è capace di dirvi la radice quadrata di settemilanovecentonovantatré. Lasciate la briciola, si dimentica anche il solo senso dell’ordine “seduto”.  Nel secondo caso vi guarderebbe con il muso rivolto verso l’alto, fisso negli occhi e la coda direbbe: non so che vuoi. Non hai in mano il traduttore automatico: la briciola, dov’è?

Solo che no, non è stronzHo. Qualcuno ieri mi ha detto che solo i cani ignoranti, per esempio, giocano da soli. Sono stata redarguita come segue: se hai un cervello e non c’è uno stimolo, ti rompi le balle e di riflesso le rompi al mondo. Un qualunque bipede farebbe questo, lui no, le rompe a te perché il suo mondo sei tu e solo tu. Che, peraltro, non hai affatto le sembianze di un bipede qualsiasi, quindi funzioni nello stesso modo. Pensaci.

Eh, pensaci. Ovvio sembra io non lo sappia, non dico nemmeno che questo mosrtrHo peloso esiste! E invece lo so, lo so bene che siamo uguali, mica per niente fatico. Avessi imparato a stare sempre in equilibrio con me, non sarei io.

Sono stata tirata per la collottola a venticinque minuti dalla Svizzera, a settordicimilioni di passi da casa mia ed in ventiquattro ore. Non sapevo geograficamente dove la mia vita avrebbe avuto seguito, se avrebbe avuto seguito, non avevo una casa, non avevo riferimenti, non sapevo quasi più quale fosse il mio nome, figuriamoci se potevo percepire quale avrebbe potuto essere il mio ruolo. Non potevo portarlo con me, non avevo un posto. Non sapevo camminare nella neve, non conoscevo la mia resistenza al freddo e nelle mie valigie c’era qualcosa di molto più pesante degli indumenti. Ma quel ‘meraviglioso peso’ è altra cosa di cui non si parla: due anime di Dio e mie, altra storia.

L’ho lasciato giù, al sicuro, in mani non solo esperte ma anche a lui molto care. Ho fatto una lotta di rimozione valsa un intero inferno per far valere l’unica arma che poteva portarmi la sopravvivenza: il concetto del no, non è a me! Degna figlia di me stessa sono andata avanti come ho potuto; bugia, al meglio che ho potuto il che è risultato bene. Il non è a meha funzionato perfettamente.

Ma se fra voi c’è qualcuno che usa la stessa arma in casi estremi, sa bene che non è un incantesimo. È un momentaneo debito che si mette con la vita e con quanto nella vita esiste; passerà prima o poi il creditore ad esigere anche gli interessi. Pensate che il creditore sia un terzo? Magari. Io stessa sono quell’esattore: il peggiore potessi augurarmi.

Il momento di pagare il dazio era giunto, dovevo andare a prendere Nathan e presentargli il culo del Monte Rosa. Non ho avuto paura del momento in cui lo avrei rivisto. È più corretto dire che ne ho avuto terrore. Mi sono improvvisamente trovata nei panni di una persona con cui, anni addietro, non ero esattamente arrabbiata, né delusa. Ero fuori di me, priva di reazioni immediatamente visibili, non avevo nessuna voglia di blaterare, ma volevo guardare negli occhi quell’essere umano, che mai avrei invitato a venire a guardarmi. Doveva avere il coraggio di farlo sua sponte. Lo fece e mi pose una domanda diretta, rimasta stampata a fuoco

nei miei annali: è la resa dei conti questa, vero?

Non avevo uno specchio, ma so che sguardo ho riservato a quella domanda e che tono aveva il mio: sì, lo è. Certo, so anche che quell’atto di coraggio ha salvato la vita ad un legame, il che è qualcosa di eroico, ma quello che doveva aver provato quel bipede davanti al mio sguardo io l’ho capito solo quando si è trattato di andare a prendere Nathan. Sarei scappata a gambe levate pur di evitare i suoi occhi, ma io non scappo mai. Non ho imparato, nemmeno dopo tutte le persone che  lo hanno fatto impartendomi signore lezioni… quello che di loro mi è rimasto è solo l’esempio di ciò che nella vita non si fa, non il suo contrario.

Cosa pensate abbia fatto la mia ombrHa pelosa? Esattamente ciò che avrei fatto io: ha alzato il muso, mi ha fissata dritta negli occhi, ha girato la testa, ha abbassato la coda e non mi ha più degnata della minima attenzione per due giorni di fila. E io, cosa potevo fare io? Accarezzarlo, coccolarlo, stargli accanto? Ma anche no. Al suo posto avrei strattonato via con violenza chiunque fosse stato me. L’unica sensazione che può aver provato dev’essere stata quella dell’abbandono a tradimento e davanti ad una cosa così, proprio io non lo potevo biasimare. Così ho fatto ciò che avrei voluto fosse fatto con me: sono rimasta nei paraggi, sempre, sentiva il mio fiato presente ma lontano quanto bastava a non fargli venire l’orticaria ed ho aspettato.

Quando sei caduto da un ponte, difficilmente apri la porta alla felicità senza prima averle fatto una perquisizione completa, dice una battuta del film Vanilla Sky, che imparai immediatamente a memoria secoli fa, sin dalla poltrona del cinema.

Lui aveva ragione ed io non potevo avere alcuna pretesa: solo che io lo rivolevo quel pesante culone peloso sui miei piedi, ma lui? Lui rivoleva i miei piedi?

Signori miei, parlassi di un qualsiasi uomo, potrei elencare a ragion veduta tutti i leciti dubbi dello scibile umano; ma parlo di un cHane e i cHani non hanno niente di umano. Sono angeli, non c’è storia, da loro non ci si può aspettare che amore. Anche quando è giusto lo centellinino perché il loro mondo gli ha strappato la fiducia a crudo.

Provo vergogna, non per l’accaduto, ma per quanto il mio gigante buono mi abbia dimostrato, dandomi il più sonoro schiaffo morale che io ricordi, che esiste una forma di amore inarrivabile per noi bipedi e per quanto mi abbia messo davanti, su quattro zampe, lo specchio di me stessa. Con una differenza: io non dimentico e chiedo sforzi sovrumani a chi mi frusta d’improvviso (e più gli sforzi che chiedo sono enormi, più vuol dire che la frustata è stata amara. E più la frustata è stata amara, più doveva valere chi me l’ha inferta) , Nathan no. Ha chiuso tutta la mia meritata punizione in quel momento iniziale ed è stato in grado di non farmi pesare nemmeno l’attesa successiva. Come ci sia riuscito io non lo so, non possiedo la sua enormità, di fatto è sotto il tavolo, sui miei piedi e appena mi alzerò mi seguirà, con quella proverbiale faccia da meraviglioso pesce lesso con la coda alta.

Certo è in fase di adattamento al nuovo, ho chiesto aiuto ad un educatore perché ho bisogno capisca in breve tempo che anche se esco da questa casa, torno e quindi non serve abbai continuamente. E non posso pretendere ci creda di botto, non dopo ciò che di me deve aver pensato. Sapete cosa mi ha detto quell’educatore dopo aver trascorso un’oretta con il mio mostrHo? Ve lo riporto testualmente, chiedo licenza, come lui mi ha chiesto di potermi parlare senza filtri: “Hai un gran cazzo di cane Myriam!”.

Lo so, avrei voluto urlare, lo so! Facciamo che lo sappia anche lui.

Così vi confesso, ho un sogno: un aldilà in cui ai chani sia fornita la parola, perché (mutuando  Mirko Badiale), anche io penso che l’uomo sia l’animale che nessun animale vorrebbe essere e quindi vorrei poter chiedere a Nathan esattamente questo: come hai fatto ad amarmi con quell’amore? Insegnami. Varrà per la prossima vita, ma ti prego, insegnami.

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FonteDesigne by Eich
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.

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