“Associazione Malati d’Altruismo”

Era pessimamente adornato di fronzoli l’atrio da cui uno s’immetteva nel salone dei Ricevimenti. Con quei disappunti, contrari a ogni forma di buon gusto, era come ricevere un pugno nello stomaco, senza aver fatto nulla per meritarlo. Sulla destra si notava uno squilibrio cromatico a causa delle bardature artificiose. I colori erano talmente sgargianti da mettere a repentaglio pure la vista di un non vedente. Si notavano delle pitture oscene rappresentanti animali in monta. Erano raffigurati su dei pascoli non più verdi ma bruciati dal sole. L’astro era stato dipinto con colori innaturali, sbiaditi, scialbi, senza vigore. Colori morti come se l’astro fosse caduto sulla luna, spegnendosi. E tale appariva la cromatica scena dei presenti: stinta, scolorata.  Qualcuno era intento a meravigliarsi mentre guardava le pitture ma senza avanzarne stime. Se alcune tele non avessero avuto intelaiature uniche, apprezzate, poco consone agli obbrobri contenuti, certamente avrebbero spento quel resto di passione rimasta nello sciame di visitatori. Due colonne di finto marmo erano adagiate ai lati della scalinata di granito, ripida, impennata a causa del limitato spazio: gli era stato sottratto dall’androne per dar posizione e sede al manufatto artistico di cattivo gusto, kitsch, alieno. Su di esse: altrettanti vasi con begonie male assistite poiché avevano perso non solo la bellezza asimmetrica delle foglie, pure l’intenso cromatico rosso, giallo, bianco, rosato e arancione dei petali sì da far pensare che le piante non fossero vere ma, imitazioni mal riuscite.

Un visitatore si era fermato davanti a un affresco scrostato, raffigurante uno stallone che “penetrava” una giumenta. Questa, a onore del vero, era stata dipinta, non si sa per intenzioni oppure per mancanza d’esperienza in tal senso dell’artista poiché dall’atto raffigurato, sembrava che la giumenta fosse per nulla consenziente al proponimento dello stallone, dato la posizione scomoda che aveva assunto per fargli passar la voglia. L’ospite si era fermato a lungo a mirar quella scena, forse perché aspettava nascere il puledro e magari imprimergli i propri odori insieme con quelli della cavalla.

Una signora che aveva camuffato la propria età ma non la longevità di cui aveva goduto, sbirciava la scena della giumenta, nell’affresco, con occhi invidiosi. A quell’ora si era fatta folta la schiera degli invitati tanto che lo spazio del salone sembrava si fosse rimpicciolito e ridotto ad andito: divenuto insufficiente a contenere la folla che aveva disagio nel muoversi. Era così che si notava già qualcuno salire la gradinata verso il piano superiore, dove in quelle occasioni, era solito trovarsi davanti a un buffet allestito.

La festa era stata organizzata a fin di beneficenza per i malati di altruismo. Gli organizzatori avevano progettato a lungo una cerimonia atta a raccogliere fondi per le persone affette da questa forma di patologia: assai cronica, ai giorni nostri. Il Presidente aveva assunto l’arduo compito di mantenere saldo il Direttivo al solo scopo di non creare, in sede, sciovinismi esasperati, ma voleva mantenere ad ogni costo quella forma equa di nostrana esterofilia controllata.

Era stato speso più del previsto nell’atto di costituire l’Associazione, più di quanto si era pensato di ricavarne dalla raccolta fondi. Lo statuto, però, era terso. L’articolo due, era ben chiaro: “Non si doveva badare a spese”. Il primo articolo predicava: “L’altruismo è una grave malattia. Essa va presa immediatamente in considerazione, senza trascurarla poiché per la sua forma virale può causare epidemie tali da sfuggire al controllo sanitario e coinvolgere negativamente popolazioni intere con il rischio azzardato che esse diventino altrettante altruiste causando la scomparsa delle guerre, la chiusura delle fabbriche di armi e la conseguente disoccupazione, in malati terminali”.

Erano tanti quelli che volevano far parte del Direttivo. Come unico accredito si richiedeva solo: essere altruista cronico e, quindi, malato terminale in modo da ricevere un più congruo aiuto economico possibile. Col tempo, nell’Associazione, si era venuto a creare un buco finanziario. Era successo a causa delle eccessive e sconsiderate spese. Queste erano state fatte in modo sbadato, imprevidente e senza logica: pranzi, viaggi, spese d’organizzazione, mance ai commessi e agli uscieri, spese per il mantenimento della sede … e quant’altro, non inscrivibili tra quelle lecite. Non rimanendo fondi per i malati in questione, questi a poco a poco peggioravano di salute fino a morire d’altruismo. Un brutto giorno pure l’Associazione esplose in bancarotta colposa e si dichiarò fallita. Fu da quella data che scomparvero gli altruisti e presero piede gli egoisti. Fino ad oggi non si sono ancora riuniti in Associazioni, questo al solo scopo di non accollarsi le spese.

 

Breve novella tratta dal libro non pubblicato, “La pazienza e la ragione”


FonteFoto di Roman Synkevych su Unsplash
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.