La miseria letta da Corrado Alvaro e quella descritta in Ghetto Italia: la storia non insegna.
Nel dopoguerra ad Andria c’erano migliaia di contadini che morivano di fame. C’erano anche pochi e ricchi proprietari terrieri. Dalla caduta del fascismo in poi i rapporti fra i due ceti erano stati tutt’altro che sereni. I primi chiedevano ai secondi di essere assunti anche se quelli ritenevano di non averne bisogno. I tumulti erano all’ordine del giorno, lo stesso i sequestri, le vendette. Gruppi di uomini giravano armati intimorendo da un lato la parte pacifica della popolazione, dall’altro le stesse forze dell’ordine.
Ecco che chi conosce questa parte di storia non si sorprende più di tanto di quanto poi successo il 4, 5, 6 e 7 marzo 1946. In sostanza la sera del 5 scoppiò una rivolta armata. I riottosi, per lo più braccianti poverissimi iscritti al PCI o alla CGIL, intimarono alla gente di restare a casa, ai negozi di chiudere, assaltarono le caserme, bloccarono con le barricate le vie d’accesso alla città. Furono mandati rinforzi da Bari, anche carri armati, bloccati anche quelli.
Per provare a far rientrare la situazione senza ulteriore spargimento di sangue, si pensò a un comizio di Di Vittorio, parlamentare e sindacalista venerato dai braccianti meridionali. Giovedì 7 marzo, nel primo pomeriggio, un gruppo di braccianti aspettava in Piazza del Municipio l’intervento del politico. A un certo punto si sentì esplodere vicinissimo qualche colpo di fucile. Gli uomini in quegli attimi concitati ritennero che gli spari provenissero dal palazzo di un ricco proprietario che dava sulla piazza. Sfondarono il portone, salirono le scale indiavolati, ma una volta sopra trovarono solo 4 sorelle che dicevano il rosario: le sorelle Porro. Due di queste le ammazzarono di botte lasciando i cadaveri per strada. Dopo si scoprì che i colpi erano partiti a due ragazzini che giocavano col fucile del padre su un terrazzo vicino.
Il fatto traumatizzò l’Italia intera. Si occuparono del caso i maggiori quotidiani parlando di “branco”, “belve”, “lupi di Andria”, “folla imbestialita”. Alla fine 130 persone furono portate a processo. Fra i pochi che non si fermarono alla sensazionalità dell’accaduto e ad Andria ci andarono fisicamente per provare a capire, ci fu lo scrittore Corrado Alvaro. Scrisse un lungo e denso articolo intitolandolo “L’eccidio di Andria”. In esso, senza voler giustificare le orrende gesta commesse, andò a vedere come vivevano quegli stessi braccianti protagonisti di quelle giornate. Ecco quanto riportò.
“Vecchi palazzi vuoti, solenni palazzi rinascimentali e barocchi, formano, con le illustri chiese, il centro vuoto e deserto di Andria. […] Ma usciti da questo deserto di vecchia pietra stemmata, il fetore di una convivenza umana e animale vi assale, e aprite gli occhi sul più complicato e sordido agglomerato che mai possiate vedere in tutta l’Italia meridionale. […] Qui ad Andria l’impressione esatta è dell’organismo malato, in cui la tiroide non funzioni e il corpo assuma i più mostruosi squilibri”.
Ma questo non è che l’inizio della cronaca di Alvaro. Continua…
“Forse diecimila, sui settantamila abitanti della città che ha il primato italiano delle nascite, vivono fra il quartiere modernissimo e quello meno vecchio della città in piano. Ma qui sul declivio, nelle abitazioni a terreno di una sola stanza, attaccate l’una all’altra come in un baraccamento, e nelle caverne, vive il resto, sessanta mila persone, con le capre, gli asini, i maiali. Il senso di una vita arrivata all’estremo della violenza è nell’aria, anche se non sapete che dieci mila di queste persone sono pregiudicati, rei di lesioni, violenza, rapina. L’odore è di fogna. […] Presso il carattere scheletrico della vecchia società, la nuova società da cinquant’anni a questa parte cresce nella putredine […]. La condizione […] dei piccoli contadini, è, nelle statistiche, la penultima della scala sociale di tutto il mondo. Ultima è quella del contadino cinese”.
In questo modo viveva gran parte dei braccianti andriesi 70 anni fa. Per fortuna non è più così, molti di quei problemi li abbiamo risolti, le condizioni di vita dei braccianti di oggi sono molto migliorate. Dei braccianti italiani, s’intende. Sì, perché qualche mese fa Yvan Sagnet e Leonardo Palmisano hanno pubblicato Ghetto Italia, un libro inchiesta sul caporalato e sulle condizioni di vita dei braccianti nei “ghetti”. Questi, come è noto, sono agglomerati di baracche in cui i contadini stranieri stagionali vivono durante i periodi di raccolta. Di questi villaggi tristi è pieno il Sud, è piena la Puglia e ce n’è uno a pochi chilometri da Andria, da poco andato a fuoco e sgomberato nelle ultime ore. Leggere come si vive in questi posti può dare le vertigini, differenze rispetto a come vivevano i braccianti del Sud 70 anni fa, sono praticamente impercettibili.
“Baracche montate con porte di scarto e lastre di ferro e eternit. Finestre di porte di plastica e oblò ricavati da copriwater e cerchioni di automobili. Tende da campo vecchie di decenni, stracciate, consumate, precedute da improvvisati bracieri dove legna e cicche si contendono i lembi delle fiamme accese. C’è la puzza e la desolazione dei più miserabili campi profughi”, raccontano gli autori. “Ci inoltriamo fra le baracche. Al naso, subito una puzza di fango e di sudore. Tra una baracca e l’altra corridoi stretti di terra bagnata, sporca, putrida. Ogni tanto una faccia nera spunta da una baracca, ci guarda, ci punta addosso occhi spenti, non più ravvivabili”. I servizi sono “buche scavate nella terra, sormontate da bancali marci e da pareti di legno fradicio imbevuto di piscio. La puzza è nauseante. Tutto il campo è circondato da questi bagni improvvisati”. E così via, 220 pagine di racconti agghiaccianti a cui a un certo punto si è tentati di non credere più.
Che cosa è cambiato allora nelle condizioni di vita dei braccianti dal 1946 ad oggi? Solo la nazionalità dei braccianti praticamente, niente più, a dispetto anche del fatto che allora il Paese usciva da una guerra mondiale, oggi, e già da decenni, è fra i più industrializzati del mondo. Nonostante tutto ciò sia uno scandalo conclamato, nessuno vuole farsi carico del problema, eppure, se c’è un mandante in fatti come quelli delle sorelle Porro, questa è senz’altro la miseria nera. Segnali d’insofferenza da parte dei braccianti stranieri ce ne sono stati, si pensi alla rivolta di Rosarno nel 2010 o a quella di Nardò nel 2011, ma risposte concrete al dramma no.
Ecco che ancora una volta sembra averci visto lungo Alvaro quando nel suo articolo scrisse: “i partiti politici, le correnti politiche possono anche dare un nome a cotesti sommovimenti; ma essi non sono in realtà che esplosioni periodiche d’una condizione umana, che di continuo tenta di risolvere in una volta i problemi che la società locale e la società nazionale non hanno mai affrontato con quell’opera assidua che si chiama convivenza, solidarietà, civiltà”.