
“È l’ora del silenzio
di diventare la torre
che l’avvenire brama”
(René Char)
Elogio del silenzio (Éloge du silence) è il titolo di un saggio scritto nel 1986 dal giornalista e scrittore francese Marc de Smedt, allievo del maestro Zen Deshimaru. Negli ultimi giorni, tentato, come tutti (o quasi), di dire (inutilmente) la mia sul tema del giorno, ho ri-pensato spesso alle pagine di questo libro che scandaglia i molti significati, valori, contesti e atmosfere che la parola silenzio esprime o evoca. Quindi l’ho riletto per resistere alla tentazione, combattuto, tra le opposte ragioni del tacere e del parlare, del parlare tacendo, ma anche del tacere parlando. Perché il silenzio – come scrive de Smedt – può essere il regno dell’assenza, ma più spesso allude ad una presenza che si manifesta appunto tacendo, senza fare rumore, profferire parole, emettere suoni: the sound of silence, che solo i pazzi interpretano come una malattia, quando sono le parole che like a cancer grow(s).
«Si fa silenzio di ciò che si è», ammonisce de Smedt, che di seguito cita un brano – tanto allusivo quanto esaustivo – della poesia di René Char, Le tre sorelle (Les trois soeurs):
L’attimo grida e si dilegua,
dal nido dell’ape e dal tiglio vermiglio.
È come un giorno di vento perpetuo,
il dado blu della mischia,
la vedetta che sorride,
mentre la sua lira dichiara:
“Ciò che voglio sarà”.
È l’ora del silenzio
di diventare la torre
che l’avvenire brama