La scuola nella società capitalistica occidentale è l’ultima/unica occasione di socialità democratica
Dal dirigente scolastico Michelangelo Filannino riceviamo e pubblichiamo:
Tutti i dirigenti scolastici ed i docenti notano come, di anno in anno, le tensioni ed i conflitti legati ai voti scolastici aumentino in modo preoccupante. Per questo motivo, credo sia opportuno discuterne pubblicamente e collettivamente, piuttosto che rincorrere singoli casi e singoli tentativi di soluzione.
Il problema è serio, specialmente nei Licei: studenti che si ammalano, genitori che spendono cifre per lezioni private, psicologi interpellati, docenti sotto pressione, richieste di accesso agli atti, ricorsi al TAR, insomma un gran dispendio di energie e denaro.
Per cosa? A che scopo?
Per il voto di fine anno, che poi diventa credito scolastico, che poi diventa il voto finale degli Esami di Stato.
Sì, ma per cosa? A che scopo?
Prima di tentare una risposta è necessaria una premessa: le Università non attribuiscono nessun valore al voto degli Esami di Stato, come dire che quel voto è “fine a se stesso”, nel senso che descrive, rappresenta il livello di “rendimento” che i docenti hanno in cinque anni attribuito ad un determinato alunno/a.
Nel concreto, il voto rischia di diventare, se non lo è già, qualcosa come la quotazione di un titolo in borsa, un feticcio, una banconota nello scambio di conoscenze fra alunno e docente. Per semplificare, qualcosa come: “Ho studiato trenta pagine, mi sono dedicato per quattro ore e tu mi metti solo sei e mezzo?” se non “Come? Sono andato pure a lezione privata! Ho speso un sacco di soldi e mi hai messo il debito?”; oppure, sempre peggio: “Come? A Peppino hai messo sette e a me solo sei e lui ha fatto quattro errori e io tre?”, eccetera, eccetera, eccetera.
Più passa il tempo e più mi convinco che un giorno i voti saranno aboliti; anzi, meglio, i voti si daranno solo su richiesta dell’interessato. Come a dire che a scuola si produrrà cultura, ognuno attingerà quello che può e che vuole attingere e, se vorrà, chiederà una valutazione sui suoi livelli di competenza, se proprio non riuscirà ad auto valutarsi in modo chiaro.
Cultura. Il punto è proprio questo. Se frequento un istituto tecnico o professionale il punto è se avrò acquisito la cultura tecnica e professionale adeguata per entrare nel mondo del lavoro: lì non mi chiederanno il voto in laboratorio di tornio, lì mi chiedono e controllano se il tornio lo so usare o no. Se frequento un Liceo, il punto è se mi sono abbastanza rafforzato nelle basi del sapere per poter affrontare gli studi ulteriori. Questa, però, è solo la superficie dell’esperienza scolastica.
Sì, perché viviamo in una società in cui la rete e l’automazione permetteranno sempre di più di imparare da soli: allora perché andare a scuola?
Andiamo a scuola per esprimere la nostra socialità e attraverso questo la nostra umanità ed attraversiamo questa esperienza in età evolutiva perché dentro questo in questo ventre l’evento non è il compito in classe, ma la possibile epifania della nostra identità, la scoperta di noi stessi, che non è solo capire che cosa fare da grande, ma molto di più. Le discipline di studio sono le provocazioni a questa epifania e i voti dicono solo qual è la nostra relazione in quel dato momento con quegli aspetti della realtà che le discipline ci spalancano davanti agli occhi. L’importante è capire se nella scuola è possibile schiudere il proprio potenziale o no, conoscere, sperimentare, esprimere se stessi o no. E non c’è nulla di più interessante e intrigante che vedere le diverse personalità, caratteri, mentalità degli studenti. L’importante è stabilire se una scuola è un luogo di vita o di non-vita; l’importante è stabilire se a scuola mi sento nella vita o nella non-vita. Ad essere sincero, se confronto gli studenti di oggi con me ed i miei compagni di scuola, trovo che gli studenti di oggi sono molto più stressati, preoccupati, esigenti, fragili. A volte piangono per cose che a noi facevano il solletico, anzi, che non notavamo proprio. Torniamo però al voto. Se è chiaro che non ha alcun valore “monetario”, che non è la quotazione sul mercato del mio essere adolescente, studente, cittadino, quale approccio dobbiamo avere?
Per tentare una risposta, devo girare l’obiettivo da un’altra parte e dirigerlo in direzione degli insegnanti. Nell’era del sapere diffuso della rete, nell’era dell’automazione, dei tutorials, di wikipedia e degli archivi digitalizzati, può un docente pensare di essere, come lo era in passato, il detentore del sapere, la stazione radio del sapere? Può e potrà competere con il cloud immenso di conoscenze in cui siamo immersi e con cui siamo in contatto istante per istante? Credo proprio di no. Allora qual è e quale sarà il ruolo dell’insegnante? Può essere il giudice? Può essere una sorta di esperto di antropologia che valuta la stirpe Homo sapiens sapiens nella sua evoluzione? Uno/a che dà i voti a bambini/ragazzi e con ciò alle relative famiglie ed ai rispettivi metodi educativi? O deve essere un laudator temporis acti, un nostalgico del professore di greco dell’Amarcord di Fellini? Per carità, no!
L’unica funzione che ragionevolmente può e potrà avere un/una insegnante nella nostra era in costante accelerazione è quella di umanizzare l’apprendimento. L’insegnante allora si sposta e, dallo stare sempre di fronte, sta qualche volta di fronte e più spesso a fianco dello studente che, mentre lo ascolta, si sta evolvendo, sta crescendo, sta cercando, sta vivendo, forse, quell’epifania; o forse è ancora chiuso nel guscio che tarda ad aprirsi e lui non sa né vuole sapere che i voti da uno a cinque sarebbero un pollice verso, mentre i voti da sei a dieci sono un pollice verso l’alto. L’insegnante deve saper usare, oserei dire giocare, con i voti come uno strumento di quella umanizzazione del sapere e della socialità di cui la scuola è occasione centrale e talvolta unica. Perché il punto è proprio questo: la scuola nella società capitalistica occidentale è l’ultima/unica occasione di socialità democratica. Fuori ci sono solo tanti schermi di computer, dentro si sperimentano già i sintomi di una disgregazione sociale senza precedenti.
Michelangelo Filannino, Dirigente scolastico del Liceo scientifico statale “R. Nuzzi” – Andria
E’ solo la punta di un iceberg.
La complessità contemporanea richiederebbe autenticità e voglia di scardinare le vecchie strutture organizzative e contrattuali, per far posto a un rinnovato progetto educativo-didattico capace di tradurre in buone prassi il difficile raccordo tra curricoli, discipline e certificazione delle competenze. Le attuali generazioni di studenti, divise tra mondo reale e mondo virtuale, dove spesso il secondo lascia poco spazio e poco tempo al primo, necessitano di una scuola autentica e attenta ai bisogni formativi di ciascuno. Belle parole! ” Già studiano poco” – mi dice una docente, mentre insieme leggiamo l’articolo – ” Se poi togliamo il voto…è la fine!”. Uno sguardo lungo…una proposta visionaria per sganciare l’apprendimento dal voto, potrebbe essere quella che porti a scelte condivise con lo studente, per cui, ad esempio, pensando alla scuola secondaria di II Grado, dopo il primo biennio comune, ciascun alunno possa scegliere, nel triennio successivo, tra differenti percorsi formativi caratterizzati da gruppi di discipline più affini alle sue motivazioni ed attitudini: di questo poi sarà responsabile rispetto agli esiti. Educare alla responsabilità è una scelta etica da cui, oggi più che mai non si può, nè si deve prescindere.
Luigi G.D. PILIERO
Dirigente scolastico
CPIA 1 BARI
Quel quel poco che conta, non essendo uomo di scuola, dico la mia. La rivoluzione tecnologica facilita l’accesso alla conoscenza, ma solo la scuola può (e deve) garantire crescita culturale e crescita umana. Oggi più di ieri servono docenti all’altezza del compito perché il loro compito è assai più gravoso che in passato. Così come è assai più gravoso fare il genitore oggi. Forse sarà il caso di ri-lanciare una forte alleanza scuola-famiglia perché questa intesa, auspicabile ma non semplice, tracci la strada per una formazione al passo col mondo che cambia.