Benedetto Petrone era un operaio comunista ucciso 40 anni fa da mano fascista. Mimmo Attila era suo amico e oggi gli scrive una lunga lettera, ma da leggere fino in fondo…

Ciao, Benedetto, generoso amico mio. Ne sono passati di anni, da quella maledetta sera del 28 novembre 1977.  Quaranta, per la precisione. Eccomi, oggi, ancora qui, come in ogni ricorrenza del nefasto evento, ad incedere… mestamente e… fieramente nel tuo quartiere, Bari vecchia. Con occhi lucidi per il passato e… trepidanti per il futuro.

Viene celebrata una sobria liturgia politica, un corteo con due tronconi, quasi incomunicabili o osteggiantisi. Davanti stendardi, vessilli del Palazzo, forze dell’ordine ed autorità della città di Bari e della regione Puglia, che avanzano a spron battuto. A distanza, sembra volutamente, per evitare un improvvido mescolamento, un popolo di gente comune, studenti, associazioni. Pugni chiusi e l’urlo… “Benedetto vivrai sempre in noi”.

Poi, le voci su un palco rosso, precario. Un’occasione per ricordare il tuo sacrificio, un impegno di partigiani a presidiare tutte le trincee dove si promuove la partecipazione popolare, il benessere delle genti, la salvaguardia e la valorizzazione del territorio, contro ogni forma di prevaricazione.

Come scenografia forze dell’ordine, compite, commossamente partecipi ed anche… soggetti sghignazzanti, che inducono all’indignazione di chi soffre ancora. Fremente. Immancabile tua sorella Porzia con un mazzetto di fiori rossi e bianchi. Parole, le sue, che fanno vibrare per l’attenzione ai giovani ed alla nonviolenza. Incisive e sentite anche quelle del presidente dei partigiani, Ferdinando Pappalardo che insiste sui significati della memoria per battere il neofascismo. Retoriche, quelle politiche, inefficaci per i risultati, da non prendere, quindi, in seria considerazione.

Nei momenti in cui il tuo sangue di adolescente operaio, comunista verace, schizzava incredulo dal tuo addome, per un’infame coltellata fascista, ero a Carbonara. Appena informato, una rabbia incontrollata si impadronì di me, lanciai contro il cielo una caterva di imprecazioni per la sua ieratica indifferenza verso le dolorose vicende umane, e fiumi di lacrime inondarono la misera dimora.

Sedata, poi, la sconvolgente emozione, mi precipitai in Piazza Prefettura. Le palpebre rimasero nascoste per l’intera notte. Assieme ad altri compagni, (“Compagni”, parola ora desueta, purtroppo, nelle nostre contrade, un tempo vibrante di umanità, che evoca il mangiare insieme, tutti, il pane, quello buono, incontaminato.) raggiunsi la sede de PCI.

Un burocrate di partito chiese se Benny avesse la tessera della FGCI!  Avvertii un pugno nello stomaco, atroce, un conato di vomito si affacciò, mefitico, alle mie labbra. Ravvisavo in quell’ignobile quesito, il tentativo di discriminare operai con la tessera da quelli senza una cartacea appartenenza partitica. Tu, ce l’avevi. Perciò, il partito e la CGIL si impegnarono al massimo. Per il giorno seguente, organizzarono, su due piedi, senza una pregressa esperienza alle spalle, una straordinaria manifestazione popolare, operaia studentesca e cittadina. Un’atmosfera commossa impregnò gli animi di quanti potevano onorarsi di essere e sentirsi uomini e cittadini democratici.

Io, ormai, non la rinnovavo più. La tessera. Ero diventato un “cane sciolto”, perché avevo cominciato a sentire i primi sordi scricchiolii, a vedere, trasecolato, le prime crepe del PCI, la più grande forza politica europea. Crepe sempre più destabilizzanti, soprattutto dopo la morte, nel 1984, di Berlinguer.

Che aveva tentato di porre riparo, mettendo al centro della sua linea ed azione politica l’austerità, vista come strumento per cambiare un meccanismo di sviluppo fondato sullo sfruttamento e sul consumismo selvaggio. Venne insultato, lo ricordo bene, deriso e dileggiato dai rampanti socialisti e company che poi occuperanno ruoli istituzionali.

Che mise tutti in guardia dalla questione morale e dalla mala politica, ma nessuno lo ascoltò. Si marciò in senso contrario, antitetico, ed oggi se ne raccolgono i velenosi frutti, per la totale assenza nell’erede del glorioso partito, il PD attuale, di una visione alta della politica. È disinvoltamente portatore, infatti, di un progetto che coincide quasi perfettamente con proclami di entità liberistiche inneggianti alla crescita esponenziale della produzione, alle delocalizzazioni, alla globalizzazione imposta dal mercato, allo sfruttamento delle risorse umane e naturali.

Caro Benedetto, non posso assolutamente mancare all’appuntamento annuale. La memoria del tuo generoso impegno ed assassinio deve far parte della storia del territorio. Un’icona per le giovani generazioni. Non devo assentarmi per nessuna ragione al mondo. Penso che un giorno verrò qui anche col bastone, in carrozzella o con l’autoambulanza su un lettino d’ospedale. Perché, tu lo sai, ci volevamo bene. Tanto. Anche se ci vedevamo di rado, per l’urgenza e la necessità di lavorare. Per sopravvivere! Perché ci battevamo entrambi per un mondo diverso, più umano, più solidale con i deboli, meno antropocentrico.

Ti ricordi, amico mio? Ci incontravamo sulle scalinate della Cattedrale. Tu eri bravo a suonare E tutti noi a cantare. Quante volte abbiamo urlato a squarcia gola “Bella ciao”, “Signora contessa”, “Nina, te ti ricordi”, “Mia cara moglie”. Poi, si andava ad attacchinare, a fare volantinaggio, alle riunioni in sezione, nelle sedi improvvisate o nelle case.  Volevamo capire, avevamo una gran voglia di sapere. Progettavamo di cambiare il mondo. Tu ed io, in modo particolare, gravati da penose situazioni economiche familiari.

Mio padre era emigrato in Germania. Per campare. Aveva una moglie e due figli da sfamare. Ancora imberbe, intuii che dovevo gettarmi nella mischia. A 14 anni lasciai la famiglia. Di notte, distribuivo, come un folle, 250 copie della Gazzetta del Mezzogiorno, da un capo all’altro della città. Una misera paghetta e… cinque copie del quotidiano, che donavo ai reietti come me. Mezzo addormentato, raggiungevo la scuola. Poi, all’uscita tanti piccoli lavoretti, lavare macchine, vendere libri, scaricare sigarette di contrabbando. Avevo da pagare il fitto per la stamberga dove alloggiavo, mettere qualcosa in bocca, comprare libri e giornali.

In tutta la mia vita avrò visto mio padre per una quarantina di giorni. Non poteva permettersi il lusso di venire frequentemente in Italia. Per lunghi periodi. Allora, molti Italiani emigravano. Milioni. Ti ricordi? Ne parlavamo con grande sofferenza, personale e sociale.  Oggi agli schifiltosi, nipoti, figli o conoscenti di emigranti, fanno schifo quelli che fuggono dalle guerre, dalla carestia, dalla fame, dallo sfruttamento. “Ci vengono a rubare il già misero stato sociale, insidiano le nostre donne” dichiarano, senza una briciola di vergogna.

Annegano, invece, i poveri migranti, nel Mediterraneo o, finiscono nelle mani di miliziani della Libia, che li fanno marcire in disumani centri accoglienza, lager, dove subiscono torture e privazioni di ogni sorta.  Quelli che riescono, dopo mille traversie, a toccare la costa italiana, vivono miseramente con l’accattonaggio, la prostituzione o raccolgono pomodori e arance nelle campagne sotto lo sguardo bieco e sprezzante di caporali.

Ci sono, poi, partiti politici che aizzano, per estorcere consenso grazie alla disinformazione propalata a pieni polmoni, i poveri del territorio, (Tre milioni, quelli assoluti. Sette, i relativi.), contro la misera gente che arriva dai luoghi della disperazione, sfruttati e devastati dal “civile” mondo occidentale. Vendendo armi, scaricando rifiuti tossici ed accaparrandosi materie prime, acqua e suolo agrario.

Tu, meraviglioso coetaneo, quinto figlio, di nove.  Poliomielitico, ma con la schiena dritta e lo sguardo politico da aquila. Tuo padre, disoccupato. Nonostante le mille difficoltà, tu ed io riuscivamo a trovare il tempo per frequentare la scuola. Perché comprendevamo l’importanza della cultura per l’emancipazione politica e civile.

Quante umiliazioni e… discriminazioni. Da parte degli “educatori”. L’istituzione scolastica ci guardava con sufficienza e diffidenza. Perché eravamo poveracci, perché ci sentivamo fieri di essere comunisti. Perché avevamo coraggio da vendere e lottavamo per una causa giusta. Attivisti, orgogliosamente, in trincea. In ogni momento della giornata.

Potevamo turbare le assonnate coscienze dei figli di papà, che poi avrebbero fatto carriera nelle banche, negli uffici pubblici ed anche in politica. Noi, come i ragazzi di Don Milani, venivamo bocciati o emarginati dalle professoresse della scuola pubblica, stipendiate anche dalle rimesse degli emigranti che vivevano in baracche, fredde ed umide. Prive di calore umano.

Dalla vita e da qualche buon maestro avevamo capito da che parte schierarci. Altri, poveracci, come noi, erano stati abbindolati dai nemici del popolo, dai padroni, dagli sfruttatori, dai ciarlatani della politica, dai delinquenti comuni o dalle organizzazioni mafiose e si erano schierati mostruosamente sull’altra barricata. Andando, senza accorgersene contro i loro reali interessi, contro i diritti proclamati dalla Costituzione, nata alcuni anni dopo la caduta del Fascismo.

Era una guerra quotidiana quella che esplodeva ogni giorno davanti alle scuole, nelle strade, nelle piazze. Di giorno, di notte. Tra noi e loro. Loro tentavano di intimidirci, picchiarci, noi ci difendevamo con la forza dei nostri valori testimoniata nella vita quotidiana. Reagivamo per presidiare il territorio, che appartiene al popolo, e nessuno deve appropriarsene privatisticamente.

Molti di noi avevamo capito che, in fondo, erano dei poveri cristi, imboccati con una manciata di spiccioli o qualche boccata di canapa ed aizzati, come segugi alle prese con cinghiali inferociti, contro la inerme povera gente e chi cercava di favorirne la consapevolezza e l’autodeterminazione. Li combattevamo, ma molti di noi non li odiavano.  Loro, invece, ci detestavano visceralmente per non perdere le elemosine che li inebriavano.

Venivano utilizzati contro gli attivisti comunisti da facoltosi mandanti, per mettere le mani sulla città. Alla fine, grazie ad una capillare rete di complicità silenziose hanno vinto. Pensano così, gli illusi. A pagarne il prezzo, è stata la città. Quartieri ghetto, periferie invivibili, dove relegare i meno abbienti. Senza piazze, senza giardini, senza spazi per i bambini, senza scuole, senza biblioteche, senza ospedali, senza una mobilità leggera, senza libertà, senza un’informazione libera. Quindi, in qualche modo, hanno perso anche loro, i loro figli e nipoti, anche se il conto in banca è straripante.

Dov’erano le forze dell’ordine, le istituzioni, in quel periodo? Perché non si adoperarono per fermare l’ondata di agguati, aggressioni e ferimenti, messa in campo da quel foltissimo gruppo di giovani missini? A chi faceva comodo la “teoria degli opposti estremismi” o la “strategia della tensione”, modello imposto coercitivamente da Piazza Fontana in poi? Quante domande, ed una nuvola di misteri che continua a veleggiare, nera, sul cielo dell’Italia. L’ultimo, il caso di un giovane dottorando italiano, Giulio Regeni, inspiegabilmente torturato e trovato morto in un fosso al Cairo, in Egitto. Cittadino italiano, si fa per dire, abbandonato al suo tragico destino dallo Stato, distratto da altri interessi.

Chi si avvantaggia, poi, oggi, dell’impennata delle destre, in Italia e nel mondo? Resto fermo, immoto, con la testa a mezzaria per capire, caro amico mio, se c’è un senso, remoto, all’azione umana. Non ne trovo. Neanche un’ipotesi a cui potersi aggrappare momentaneamente. Vedo solo follia, disperazione che barcolla in un deserto sinistramente punteggiato da cumuli di devastazione, gente sofferente ed infiniti cadaveri. Troneggia, una corte di gente prezzolata, un’amebica ciurmaglia, inneggiante con una campagna massmediatica orchestrata ad arte, plaudente, un ciuffo di ricconi dominatori del mondo.

Quella sera del 28 novembre 1977 tu tentasti, ansimante, di fuggire. La gamba zoppicante, però, non poteva volare per salvarti dai numerosi aggressori. Inciampasti, nella corsa disperata, ruzzolasti per terra. Infierì su di te, spietatamente l’esecutore materiale, infilzandoti le budella con un coltello. Come una povera bestia da macello. Mentre, agonizzante, stramazzavi esanime al suolo, i tuoi occhi, increduli, domandarono: “Perché, fratello, amico, compagno, eppure sto lottando per il tuo riscatto, la mia, la tua, la nostra emancipazione?” Non seppe risponderti, in quel momento. Lo sciagurato. Più tardi, finito in prigione, si impiccò! Con quel gesto di disperazione voleva forse chiedere perdono?

Nessuno dei mandanti, che avevano brindato alla tua uccisione, abbassò pietosamente le sue palpebre. La testa rimase accasciata sulla spalla. Gli occhi, sbarrati. La lingua, pendula. La bocca, spalancata. La tua e la sua morte furono anche volute dalle tante “brave” persone, affettuose oltremisura con i propri congiunti più stretti, distratte, indifferenti, barricate a riccio su se stesse nel loro individualismo familistico e clientelare, eterodirette da un consumismo totalizzante.

La tua vita, il tuo entusiasmo, l’amore verso gli ultimi, i tuoi sacrifici, il tuo impegno baluginano su una stella, da dove ogni sera mi guardi, quando mi affaccio dal balcone della mia abitazione a Casamassima, invogliandomi a lottare, sorridendo a tutti quelli che affrontano mille sacrifici e fatiche per costruire un mondo migliore.

Alcuni degli amici di allora, tenacemente coerenti con i propri valori, hanno pagato dei prezzi, personali e familiari nel mondo del lavoro, nella vita di tutti i giorni. Tanti, i voltagabbana che inneggiavano alla falce e martello, ora con il colletto bianco, continuano a pontificare in nome degli ultimi, ma brigano con gli avversari politici, con i banchieri, con le multinazionali, con la criminalità, per ricoprire poltrone, favorire amici e rimpinguare il conto in banca.

Ti voglio bene, Benedetto. Qualche volta, quando sono giù di tono, quando aprendo la finestra non vedo il sole nascente ma nuvoloni neri all’orizzonte, mi chiedo se è valsa la pena che tu abbia sacrificato la vita. Non appena, però, vedo qualcuno, donna o uomo che sia, sofferente, analfabeta, ammalato, disoccupato, migrante, invalido, sfruttato, uno come te, mi assale una gran voglia di riprendere la tua, la nostra lotta e senza accorgermene mi trovo a cantare, mentre tu suoni, “Bella ciao”, inno che anche ora, molti giovani in questo momento davanti alla Prefettura di Bari, alla presenza di tua sorella Porzia, sorridente, cantano guardando, con occhi sinceri, orizzonti illuminati.

Un abbraccio, gagliardo ed avvolgente.

Mimmo. Un compagno di quei giorni, fedele al quadro di valori professati da entrambi.


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Percorso scolastico. Scuola media. Liceo classico. Laurea in storia e filosofia. I primi anni furono difficili perché la mia lingua madre era il dialetto. Poi, pian piano imparai ad avere dimestichezza con l’italiano. Che ho insegnato per quarant’anni. Con passione. Facendo comprendere ai mieli alunni l’importanza del conoscere bene la propria lingua. “Per capire e difendersi”, come diceva don Milani. Attività sociali. Frequenza sociale attiva nella parrocchia. Servizio civile in una bibliotechina di quartiere, in un ospedale psichiatrico, in Germania ed in Africa, nel Burundi, per costruire una scuola. Professione. Ora in pensione, per anni docente di lettere in una scuola media. Tra le mille iniziative mi vengono in mente: Le attività teatrali. L’insegnamento della dizione. La realizzazione di giardini nell’ambito della scuola. Murales tendine dipinte e piante ornamentali in classe. L’applicazione di targhette esplicative a tutti gli alberi dei giardini pubblici della stazione di Barletta. Escursioni nel territorio, un giorno alla settimana. Produzione di compostaggio, con rifiuti organici portati dagli alunni. Uso massivo delle mappe concettuali. Valutazione dei docenti della classe da parte di alunni e genitori. Denuncia alla procura della repubblica per due presidi, inclini ad una gestione privatistica della scuola. Passioni: fotografia, pesca subacquea, nuotate chilometriche, trekking, zappettare, cogliere fichi e distribuirli agli amici, tinteggiare, armeggiare con la cazzuola, giocherellare con i cavi elettrici, coltivare le amicizie, dilettarmi con la penna, partecipare alle iniziative del Movimento 5 stelle. Coniugato. Mia moglie, Angela, mi attribuisce mille difetti. Forse ha ragione. Aspiro ad una vita sinceramente più etica.