Una passeggiata nel corpo di una donna

Voci. “Parti da sola di notte? Non hai paura?” mi ha chiesto Luca una sera, poco prima di prendere un aereo.

“No”, ma mentre scrivevo quelle due lettere ho realizzato quanto in realtà fossi spaventata, dello scarso valore che un mio “no” poteva avere. Un taxi, un autobus e un aereo. Da sola. Cosa potrebbe succedere ad una persona che viaggia da sola? Mille imprevisti, magari qualche rapina.

La mia paura aveva qualcosa a che vedere con la mia incolumità. Che è in realtà una paura che si risveglia ogni volta che sono da sola per strada.

Dicono che sia stata intaccata troppo da una narrazione femminista, che di fatto la violenza di genere, le molestie, il femminicidio, sono un fenomeno di nicchia esagerato ed ingigantito da una certa cultura di sinistra.

Pochi giorni fa ero seduta in un locale affollato, in una zona piena di ragazzi nel centro di una Capitale europea. Anzi, La Capitale europea: Bruxelles. Io e due amiche chiacchieravamo sedute al tavolino. L’unica con una birra in mano ero io, quindi non si poteva pensare di approfittare di noi perché ubriache (e anche se lo fossimo state, sarebbe stato addirittura più vergognoso). Niente scollature: il freddo ci aveva coperte fino alla punta delle dita. Nulla che facesse pensare ad una provocazione o ad una disponibilità. Un tizio si avvicina a noi, inizia a parlarci insistentemente fino a sfiorare i nostri visi. Il mio bicchiere di birra è rimasto sul tavolo.

In tre in un posto affollato ci siamo sentite impotenti e private di una cosa tanto sciocca e scontata come bere una birra di venerdì sera. L’ennesimo episodio che ci ha portate a raccontare di “quella volta che” e “quell’altra in cui”, fino a farci rendere conto di quanto la molestia sia la quotidianità, un rumore di sottofondo che a volte tocca vette eclatanti. Per capire se fossi io a vedere violenza ovunque, ho provato a chiedere ad alcune amiche se si fossero mai sentite in pericolo in quanto donne. Età diverse, percorsi di studi diversi, città diverse. Una costante.

Forse è per questo che ho deciso di raccogliere alcune voci di donna.

Francesca, 24 anni

Avevo 15 anni. Dato che abitavo in un paesino, frequentavo la scuola della città più vicina, prendendo ogni giorno l’autobus. Avevo una maglietta scollata, ma non così tanto. Insomma, ci ero andata a scuola con quella maglietta! Torno da scuola con il mio gruppo di amici, scendiamo tutti alla stessa fermata, sempre affollata di gente. Io resto qualche metro indietro per infilarmi qualcosa in tasca, mentre i miei amici erano pochi passi più in là. Mi sento spingere da qualcuno e pensavo fosse qualche mio amico che si era avvicinato per scherzare. In quei pochi istanti, mi rendo conto che non poteva essere lui: la mano era nella mia maglietta e stava cercando di slacciarmi il reggiseno. Lì mi sono accorta che non conoscevo quest’uomo che stava tentando di sollevarmi. La mia reazione è stata quella di tirargli un calcio. Lui è rimasto lì per terra per qualche secondo e poi è scappato via. Ero pietrificata, riuscivo solo a tremare lì in mezzo a quella fermata piena di gente mentre nessuno reagiva. Ho urlato per chiedere aiuto. Niente. Le persone alla fermata mi guardavano e non dicevano nulla. La cosa peggiore è stata che i miei amici non si erano accorti di niente e non riuscivano nemmeno a credermi. Ero davvero sola in mezzo alla gente: era successo, ma nessuno lo testimoniava. Solo una signora alla fine si è avvicinata e i miei amici mi hanno creduta.

La cosa più assurda è che la libertà conquistata di tornare a casa da sola mi era stata portata via da uno sconosciuto: tutti i giorni successivi ho aspettato che venissero i miei genitori a prendermi. Adesso continuo a scegliere i vestiti da mettere quando so che devo tornare da sola: mai tacchi o minigonna, come se fosse il modo in cui sono vestita il motivo per cui divento un oggetto.

L., 25 anni

Ero stata ad una festa di quartiere e stavo rientrando a casa, pochi passi da sola. Un signore in una macchina mi ferma per chiedermi indicazioni. Mi avvicino e inizio a parlare quando, abbassando lo sguardo, mi accorgo che aveva la mano infilata nei pantaloni. Sono scappata via piangendo.

Giorgia, 24 anni

Tornavo a casa dopo una sera con alcuni amici. Si era fatto tardi, quindi decido di prendere l’autobus notturno che si fermava proprio davanti casa. Anche se era sabato sera, quella volta la fermata era deserta. C’ero solo io. Arriva un ragazzo, aspetto rassicurante, e mi tranquillizzo. Fin quando questo tizio inizia a chiedermi come mi chiamassi, dove andassi, quanti anni avessi, continuava ad avvicinarsi a me e voleva che lo seguissi in un bar. Mi era addirittura partita una chiamata a casa e quando mia madre ha cercato di richiamarmi non ho voluto rispondere. Ero certa che sarei scoppiata a piangere dalla paura e non potevo farla preoccupare nel cuore della notte. Per fortuna è uscito un signore, una guardia giurata, da un bar e capendo la situazione ha aspettato con me l’autobus.

Martina, 23 anni

Ero con il mio ragazzo. Non ricordo bene quale fosse il motivo ma abbiamo iniziato a discutere perché lui era geloso. Eravamo seduti con alcuni amici e lui mi ha tirato uno schiaffo davanti a tutti. Nessuno ha mosso un dito.

M., 25 anni

Camminavo sulla strada di casa. Una macchina con dei ragazzi a bordo accosta. Rimangono tutti lì a guardarmi. Quando si sono resi conto che non stavo “lavorando” sono andati via. È come se si fossero sentiti in dovere di provarci, come se fosse una cosa che gli spetta.

P., 22 anni

Io e un’amica stavamo camminando su una strada piena di locali. La strada si era svuotata e alcuni locali avevano iniziato a chiudere. Un uomo camminava verso di noi, come d’altronde altre persone. Ma questo qui ha iniziato a rallentare sempre di più il passo fino a fermarsi. La mia amica ha avuto la prontezza di afferrare le chiavi di casa sua. Siamo riuscite ad entrare tempestivamente nell’androne del suo palazzo, mentre il tizio aveva preso ad inseguirci. Riesco ancora a vedere chiara, nella mente, la faccia di quell’uomo dietro i vetri del portone.

A., 24 anni

Concertone in piazza a Roma, gente ovunque, tutti stretti gli uni vicini agli altri. Un ragazzo cerca di attaccare bottone in maniera parecchio fastidiosa, avvicinandosi più del dovuto. Prendo per mano la mia amica e ci spostiamo verso il palco, nel tentativo di allontanarci. Lui niente, continua a seguirci, non ci lascia. Insiste, si avvicina, mi sono sentita braccata come un animale senza via di fuga. Non potevamo spostarci senza che lui ci seguisse.

M., 24 anni

Durante una festa ho conosciuto un ragazzo. Dopo qualche chiacchiera e qualche bacio innocente, ha iniziato a insistere nel volermi accompagnare a casa. Nonostante non avessi nessuna intenzione di proseguire la serata con lui, un’amica, fraintendendo le intenzioni, mi ha lasciata da sola con questo ragazzo. Arrivati sotto casa, ho cercato di salutarlo, facendogli capire chiaramente, anzi, dicendoglielo, che non sarebbe salito. Nel chiudermi il portone alle spalle, mi rendo conto che le intenzioni, evidentemente, non erano chiare. Dopo avermi bloccata al muro, riesco a liberarmi e a correre su per le scale, non riuscendo ad aprire la porta. Sono rimasta lì, sul pianerottolo, tra il senso di colpa di avergli parlato, di averlo baciato e quindi di essere io la responsabile di quella situazione e un senso di asfissia, di sconfitta. La fortuna ha voluto che dopo pochi minuti un’amica passasse sul pianerottolo e abbia avuto il coraggio di cacciarlo. Non è riuscito a farmi nulla di grave. Perlomeno, fisicamente. Ci sono voluti due anni prima che riuscissi a perdonare me stessa per quella sera e chiamarla col proprio nome.

Ho rivolto a venti amiche la stessa domanda: ti sei mai sentita in pericolo in quanto donna? Tutte mi hanno risposto nello stesso modo: “A parte i soliti che ti urlano qualcosa dalla macchina/che ti fermano per strada/che ti toccano il culo in un locale, c’è stata quella volta che…”. Venti ragazze tra i venti e i trent’anni, venti amiche con provenienze e percorsi di vita diversi, percepiscono come parte della quotidianità l’essere trattate come oggetti di piacere. Solo alcune mi hanno raccontato i casi più eclatanti, quelli che più le hanno terrorizzate. Molte mi hanno chiesto di mantenere l’anonimato, come se fosse una sconfitta l’essere riconosciuta in quanto vittima, come se fosse una colpa, come se ne fossimo complici. Nello scrivere questo articolo, invece, mi sono accorta che non c’è nulla di eccezionale nella molestia, che è più quotidiana di quello che si pensi. E che continuiamo a considerarla qualcosa di cui non parlare, qualcosa che tendiamo ad esagerare, perché, dai, si, in fondo siamo tutte delle fighe di legno, che saranno mai due complimenti.

In una società in cui il Gender Gap si va riducendo, è più facile che una donna raggiunga ruoli di potere o di prestigio, vi è una tendenziale riduzione delle discriminazioni di genere, ma la molestia resta una costante. Frequente tanto da diventare rumore di sottofondo. E spesso, a pensarci , nemmeno ci ricordiamo di quella volta che un vecchio ci ha sbarrato la strada con la macchina per farci salire, o quella volta in cui un ragazzino ha provato ad afferrarci, o quell’altra volta quando siamo state seguite fin sotto casa. Perché sulle norme giuridiche, sugli ostacoli normativi si può intervenire.

Ma per quelli culturali la strada è più complessa, specie se abbiamo ancora amici e amiche che ritengono che la violenza di genere sia un’esagerazione giornalistica o di qualche politicante.

Provate a chiedere alle vostre amiche, fidanzate, mamme, zie, nonne se si sono mai sentite in pericolo.

E ammettete a voi stesse che la violenza ci ha accompagnate fin da quando ci sono spuntati i seni, come se fosse qualcosa di dovuto, come se fosse ovvio, normale smettere di essere persone e diventare oggetti di cui disporre a proprio piacere.

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1 COMMENTO

  1. Esperienze talmente diffuse da risultare quasi normali. Eppure cambiano il modo con cui guardi il mondo per sempre

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