La vita consacrata celebra il 2 febbraio la propria giornata. Monasteri, conventi e comunità religiose più che specchio di cielo sulla terra, senza rinunciare alla propria missione, sono alle prese con problematiche tutt’altro che religiose o spirituali; anzi, a volte si ha l’impressione che si utilizzi la spiritualità come balsamo sulle proprie sofferenze istituzionali.
Certamente la vita consacrata sta attraversando una critica fase di transizione. Il fenomeno ha dei risvolti nelle incertezze e nelle fragilità che caratterizzano attualmente istituti e comunità; considerarsi però vittime e martiri della modernità può essere una forma autolesionistica di grande disimpegno.
Non si può vivere ignorando il contesto umano, sociale e culturale che ci circonda; diversamente la parola e l’azione del gruppo perdono di incidenza. La loro influenza si riduce e il messaggio non raggiunge gli ipotetici destinatari. Illudendosi che il problema si possa risolvere escogitano eventi religiosamente pittoreschi o attraverso operazioni strategiche di immagine, sarebbe una scelta irresponsabile.
A questo si aggiunga la situazione di certe comunità che perdono spessore e densità nei contenuti, sopravvivendo solo come un amalgama di progetti “professionali” o “ministeriali” individuali, che acquistano rilevanza in base all’emergente e momentaneo ruolo gerarchico del soggetto che le gestisce.
Gli interrogativi in proposito sono vari: si sta prendendo sul serio la sfida dell’inculturazione, condividendo la vita delle persone e i loro problemi reali? Si è capaci di reagire con creatività a queste sfide? Come comunità si è riusciti a ipotizzare delle risposte alle nuove situazioni?
La crisi della vita consacrata tocca anche il proprio interno a partire dal ruolo dell’autorità in cui l’arte del governare è intesa non solo come amministrazione, ma soprattutto come capacità di ascoltare le domande della società e le necessità del gruppo, per fornire delle risposte efficaci e credibili. Il silenzio non sempre è lo spazio della riflessione e della meditazione, spesso è espressione del nulla e del niente: rivelazione di una grande povertà!
Un capitolo amaro è costituito dalla mancanza di vocazioni. Ciò può indurre, senza un vero discernimento, ad aprire le porte ad ogni nuovo venuto o supplicare il rientro di fuoriusciti, con delle conseguenze penose: la soddisfazione per l’arrivo di un candidato sarà presto seguita dalla desolazione di una partenza.
Avere dei candidati è una cosa, formarli è un’altra. In queste situazioni di fragilità, la formazione si rivela spesso inadeguata, non solo in termini di insegnamento, ma soprattutto di direzione. Nel miglior dei casi, più che far emergere la personalità del candidato, si cerca di formare a propria immagine e somiglianza colui che ha bussato alla porta della comunità.
La vita consacrata, oltre che da forti motivazioni interiori, tornerà ad essere alba radiosa con il dialogo: non quale gesto di cortesia, ma come atto di coraggio indicante la capacità di collocarsi sullo stesso piano del proprio interlocutore, rinunciando alle certezze precostituite, fino alla disponibilità ad abdicarvi qualora risultassero dubbie o effimere. I problemi sono rilevatori di disagi reali: non è opportuno fingere che non ci siano o ignorarli!
Quale realtà di frontiera, la vita consacrata rimane sempre la dimora degli esploratori del mondo dello Spirito. Queste non sono delle storie isolate; forse le deviazioni sono più estese di quanto si pensi, ma rimane sempre quella forte volontà di “scrutare nella notte per riconoscere il fuoco che illumina e guida; scrutare il cielo per riconoscere i segni premonitori di benedizioni per le aridità. Vegliare vigilanti per intercedere…”.