Che in certi casi è un dovere morale di amor proprio

“Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”: così Nietzsche ci mette in guardia dalle battaglie perse, dalle performance in cui si rischia di vincere tutto e perdere se stessi, dagli obiettivi nei quali tutto è nitido all’infuori di noi, che restiamo sfocati nell’incapacità di centrare tutto, tranne la nostra serenità.

Ci hanno con-vinti a vincere sempre, ad andare fino in fondo sempre. Ci hanno inculcato la spiritualità del profondo, fino alla pesantezza, che è l’incapacità di restare leggeri per planare sulle superfici e imparare a goderne la bellezza. Invece, a volte, bisogna guardare in faccia la disfatta di certi progetti, piangere, alleggerirsi dalle zavorre, fare uno, dieci, cento passi indietro e ritornare in super-ficie, che è la “facies” superiore delle cose. Quella da cui siamo partiti, proclamandoci nemici delle apparenze e cultori delle profondità sommerse. A volte, insomma, occorre essere superficiali. Non sciocchi, non vuoti, non ingenui, non banali, non insensati. Semplicemente abbastanza leggeri da passeggiare sui cristalli della nostra storia.

La leggerezza è un lavoro di analisi: significa discernere ciò a cui bisogna rinunciare e dividerlo da ciò che va tenuto e gelosamente protetto dall’ansia e dall’inquietudine di certi pesi. E di-videre, da “videre”, contiene l’idea di analizzare per conoscere, sapere, giudicare. Per questo la leggerezza può risultare un lavoro pesante. No, non è un paradosso: in certi casi essa non è affatto “levis”, lieve, leggiadra, agevole, facile. Parlo di chi è così sensibile da riuscire a percepire molto più di ciò che viene comunicato, sia nelle parole sia nei silenzi e, di conseguenza, a dare molto, troppo peso alle cose. Ma è proprio in quel caso che essa diventa un dovere morale di amor proprio.

L’ho capito qualche giorno fa, mentre passeggiavo nella campagna brianzola dopo un’intensa nevicata. E mentre il passo pesante mi impediva di destreggiarmi sulla superfice innevata, anzi mi faceva affondare maldestramente, contemporaneamente mi riportava ad un affaticamento generale di vita e mi ricordava l’unico, vero spirito natalizio in cui credo: lo svuotamento di Dio. Natale è la leggerezza di un neonato, che mette in crisi l’idea giudaica della “kavod”, la gloria invadente e pesante di un Dio considerato potente…e che sfida tutte le pesantezze della mia, della nostra vita. Per questo quello che auguro, a me e a tutti, è di ricevere in dono un po’ di sana superficialità, un po’ di genuina leggiadria, per oliare le ali arrugginite da complicatezze nocive. Auguro, a me e a tutti, spazi più vuoti e tempi più noiosi. Auguro, a me e a tutti, la forza di iniziare l’ardua impresa di snellire la quotidianità da pesi ingiusti e insostenibili e, soprattutto, il coraggio di smascherare quelli travestiti da nobili ideali, da saldi valori, da verità indubitabili, da altisonanti incensazioni, da onorifiche consacrazioni, da rivoluzionarie missioni, da doverosi sacrifici, da richieste disinteressate, da relazioni sacre, pure e necessarie.

“Se togli un po’ di cose dalla tua vita, se ti alleggerisci qualcuno se ne accorge. Dio in persona si interessa a chi si svuota, li ringrazia rinfrescandogli il viso” (F. Arminio).

Buon Natale!


FontePhotocredits: Michela Conte
Articolo precedenteAbbigliamento running invernale
Articolo successivoL’OLIO DEI MIRACOLI!
Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)

1 COMMENTO

Comments are closed.