Ma si’ nato a casa tua…

Lasciare il tetto dei propri genitori e andare a vivere da soli, specie se si è in un’età dall’irsuta barba e dall’impomatata acconciatura tricologica, si sa, è un passo prima o poi da compiere. Invidio chi ne è capace e chi si riscopre più forte (rarissime eccezioni che fortunatamente conosco) di fronte alla propria solitudine, svezzamento ammirevole e necessario.

Anche il Sottoscritto si sarebbe diretto verso l’auspicata indipendenza immobiliare se la disabilità non l’avesse costretto al sostegno fisico di terzi. A lasciarmi interdetto, però, sono le motivazioni da addurre a tale scelta.

Premettendo che, a mio modesto parere, la kalokagathia di un uomo si misura dal trattamento che egli riserva a chi gli ha donato la vita (in ossequio al quarto comandamento “onora il padre e la madre”), trovo, sinceramente, inspiegabile l’intolleranza degli impavidi giovani d’oggi nell’ascoltare frasi del tipo “hai già mangiato?”, “perchè sei triste?”, “com’è andata a lavoro?”.

Personalmente, considero le raccomandazioni di cui sopra le più premurose frasi d’amore che una persona possa sentirsi dire, e vantarsi, in viale Crispi, davanti ai decerebrati amici di comitiva, di “volermi fare i cazzi miei, senza dover dar conto a nessuno”, è la più grave mancanza di rispetto che, da legittimi eredi, possiate riservare a chi vi vuole davvero bene, attenzione che Papà e Mamma vi dimostrano anche quando pagano, mensilmente, l’affitto del vostro nuovo monolocale, o quando vi stirano i panni, quelli sporchi che, puntualmente, dimenticate di lavare in casa.