Mi chiamo Eniola…

La mia è una brutta storia. Brutta è la mia storia.

Mi chiamo Eniola. Sono nata il tredici settembre millenovecentonovantadue a Ijebu Ode in Nigeria.

Non avevo ancora due anni quel maledetto giorno in cui invano cercai la mia mamma, i contorni del suo volto, il suo profumo, il calore della sua voce.

Tutto invano!

Non c’era più. Dissolta come bolla di sapone. Non potei seguirne la danza e intuirne la direzione.

Non so perché mamma avesse deciso di allontanarsi dalla famiglia. Certamente non era felice con mio padre, che beveva come una spugna.

Rimasi con mio padre, insieme a mia sorella e a mio fratello.

Volevo bene a mio padre.

Mio padre aveva tante mogli e, con ogni moglie, altri figli.

Solo una di loro non aveva figli. Una donna perfida e spietata. Mi faceva lavorare e stancare tanto.

Ero solo una bambina. Mi costringeva a camminare per chilometri. Dovevo andare a riempire l’acqua da un pozzo lontano.

Per raggiungerlo ero costretta a percorrere una lunghissima strada con una giara pesante sulla testa.

Ogni volta che mandano in TV la pubblicità del sogno di Naima mi rivedo. Le sue parole raccontano la difficile e impervia strada verso quel pozzo lontano lontano.

Puntualmente il mio nome si sovrappone a quello di Naima.

“Mi chiamo Eniola e ogni notte devo fare molta strada per andare a prendere l’acqua. Stanotte ho fatto un sogno: le stelle diventavano gocce che riempivano la mia giara…”

A questo punto il mio sogno si spezza… le stelle sopra di me mai diventarono gocce di acqua, ma perle di sudore e stille di lacrime.

Infelicità e tristezza erano diventate uniche compagne delle mie giornate. Il mio cuore graffiato da solchi sempre più profondi di disperazione cadde preda di una voce infernale che negli ultimi mesi non aveva fatto altro che ripetere “Meglio morire!”

Fu una notte, sì una notte. Perché è di notte che le ombre diventano invincibili giganti. Quella notte, a soli dodici anni, ingoiai tantissimi confetti bianchi. Li rubai alle tante terapie che mio padre seguiva.

Non furono per me importanti forme e dimensioni. Il mio esofago ne fu presto pieno. Incolonnati in perfetto ordine come su asticelle di un pallottoliere, sfociarono nel mio stomaco provocandomi dolori lancinanti.

Non abbastanza velenosi, accidenti, da far spegnere d’un botto i miei motori.

Mi soccorse la sorella di mio padre. Mi portò in ospedale. Fui salva.

Venne chiamato mio padre. Avrei avuto bisogno di strette amorevoli e rassicuranti, di protettivi abbracci consolatori che alleviassero l’angoscia inferocita dal senso di colpa per il fallito tentativo di autoannientamento. Mio padre giunse in ospedale. Furiosamente mi malmenò, coprendomi di offese e rimproveri. Fu mia zia, la sorella di mio padre, ad ospitarmi in casa sua.

Abitai con lei per quattro interminabili mesi.

Era una persona dolce, ma io soffrivo moltissimo per la lontananza di mio padre. Volevo stare con lui.

Mia zia si prodigò perché mio padre accettasse di venire da me.

Venne. Mi portò via con sé, ma non nel nido dal quale ero partita. Questa volta pensò di “parcheggiarmi” da sua madre.

Mi sentivo un pacco indesiderato, uno di quei pacchi che non si sa dove depositare, di quelli che ingombrano soltanto. Ogni giorno mi chiedevo quale sarebbe stata la mia successiva collocazione.

Mia nonna preparava del cibo che a volte mi dava la nausea e il disgusto, Io non riuscivo a rifiutarlo per non litigare con lei né a gettarlo via.

Allora lo nascondevo, lo depositavo tra un mobile e una parete, convinta nella mia ingenuità di bambina che la nonna non avrebbe potuto accorgersene. Un giorno il deposito alimentare ormai putrefatto fu scoperto. La nonna vi aggiunse dell’acqua e mi costrinse a mangiarlo.

Dilaniata, obbedii. La sera stessa mi dileguai. Corsi a casa della sorella di mia madre. Le raccontai l’atroce storia e la implorai di aiutarmi a raggiungere mia madre.

Accettò di aiutarmi. Annotò indirizzo e nome della città in cui avrei trovato mia madre.

Mi diede anche i soldi per il pullman, corrispondenti a circa venti euro italiani. Restai da lei solo un giorno.

Stavo malissimo. Lance conficcate nell’addome e fontane di vomito per quel cibo ammuffito ingurgitato per punizione rendevano il chiassoso tumulto già imperversante nella mia testa e nel mio cuore più grave e vorticoso.

Intrapresi lo speranzoso viaggio verso mia madre.

Riuscii a salire solo su due pullman. Avrei dovuto salire su un terzo pullman, ma non avevo più soldi.

L’autostop era l’unica possibilità che mi rimaneva. Fu una famiglia ad accogliermi nella sua auto. Avvistai i contorni delle baracche di Ajegunle dopo quattro lunghe ore di viaggio.

I miei occhi erano ormai serbatoi di lacrime. Tremavo all’idea che avrei rivisto mia madre. Cosa stava per compiersi?

Il pendolo della mia caotica immaginazione oscillava tra il dolcissimo estremo dell’incontro struggente di una madre che riabbraccia una figlia perduta da tempo e l’estremo rabbioso, o peggio indifferente, di un reincontro indesiderato e fastidioso.

Scesi dall’auto ringraziando la famiglia che mi aveva offerto quel pezzo di viaggio e chiesi ad un automobilista di passaggio le indicazioni stradali per raggiungere la via in cui abitava mia madre.

A volte la fortuita casualità riserva la fortuna del propizio incontro. Quell’automobilista era mio zio, il fratello di mia madre, e mi accompagnò direttamente da lei.

Rividi mia madre dopo più di dieci anni. Aveva un altro marito e un’altra figlia. Mi aprì subito la sua porta e il suo cuore.

Pur di non perderla ancora una volta, mi resi subito utile. Davo una mano in casa e seguivo nei compiti Ayomide, la mia nuova sorellina.

Un giorno Ayomide era particolarmente capricciosa, non aveva intenzione di fare i compiti. Le ho dato una pacca sulla mano per invogliarla a terminare i compiti. Inscenò una tale tragedia per il piccolo colpetto ricevuto che la mia mamma mi cacciò di casa con l’accusa di aver malmenato la bambina.

… e mi ritrovai di nuovo sola, disperata, reietta, colpevole di un misfatto mai commesso.

Sono Eniola. La mia è una brutta storia. Brutta è la mia storia.

Peregrinai per le strade di Ajegunle, fino a che trovai una famiglia disposta a tenermi come collaboratrice domestica e tuttofare.

Il destino si era accanito contro di me e anche in questa occasione aveva stabilito che il numero dei miei giorni in questa nuova famiglia non dovesse essere copioso.

Un giorno dormivo nel mio letto. Un cigolio di porta. Pochi passi. L’ombra lunga del figlio venticinquenne di quella famiglia proiettata sul muro della mia stanza. Riconoscibile. Inconfondibile. L’invasione piombata alle mie spalle. La sinistra penetrazione.

Il velo della mia innocente e sfortunata adolescenza fu squarciato senza il mio permesso, lontano da ogni mio desiderio, fuori da ogni possibile mia cosciente previsione.

Ora neppure più custode e padrona della mia verginità.

Completamente espropriata di me stessa abbandonai l’ennesima casa.

Di nuovo raminga.

Ribussai alla porta di mia madre.

Il leone che avevo lasciato il giorno in cui ruggendo mi aveva ributtato fuori di casa aveva ceduto il posto a un agnellino fragile e indifeso.

La morte di suo marito le aveva cambiato la pelle e il manto.

Le sorti si erano ribaltate e ora era lei, mia madre, ad avere bisogno di aiuto e di tenerezza.

… e io mi resi disponibile a darle aiuto e tenerezza.

Lavoravo. L’aiutavo. La coccolavo.

Arrivarono rinforzi. Avevo rintracciato mia sorella e mio fratello. Loro erano ancora nella casa di mio padre e soffrivano come soffrivo io quando abitavo ancora con lui.

Accettarono subito il mio richiamo e l’invito a raggiungermi da mia madre.

Lavoravamo tutto il giorno vendendo merce alle auto incolonnate ai semafori. La sera portavamo i soldi guadagnati ai nostri datori di lavoro che ci consegnavano solo la metà dei guadagni.

Fu questo il periodo in cui comparve un uomo buono e generoso nel panorama delle persone che hanno aiutato mia madre, sua figlia, me, mio fratello e mia sorella. Quell’uomo prodigo di gesti gentili e di lusinghe riuscì a conquistare la mia fiducia e il mio interesse verso di lui.

Il mio grembo accolse i suoi semi.

Uno di loro simpatizzò con un mio ovulo e insieme sbocciarono.

Io non me ne resi subito conto.

Ero al quarto mese di gravidanza quando scoprii il frutto che custodivo.

Non rimasi nella casa di mia madre perché non aveva mezzi sufficienti per mantenermi. Accolsi l’invito ad andare a vivere con l’uomo che mi stava rendendo madre.

Fui madre per la prima volta il sedici marzo del duemilaundici. Quella nascita fu croce e delizia per me. Delizia di una giovanissima donna che diventa madre. Croce perché immediatamente dopo l’uomo prodigo, buono e generoso si trasformò nell’esatto contrario. Violenze e offese iniziarono ad abbattersi ogni giorno sulla mia già magmatica esistenza.

Resistetti due anni. Poi decisi di infliggere a mio figlio la stessa triste sorte che era toccata a me all’età di due anni. Un giorno lo portai da mia madre, finsi di dover uscire d’urgenza per una commissione e non tornai più.

Avevo già preso accordi con una donna intorno ai quarantacinque anni.

In pullman mi accompagnò a Kano.

Da Kano in macchina arrivai in Niger, dove vi restai per due mesi. In quei mesi vissi per strada. Per strada vidi morire persone per fame e per miseria.

In Niger fui costretta a concedere il mio corpo pur di sopravvivere.

Dopo quei due terribili mesi, riuscii ad arrivare in Libia dove ho lavorato nelle pulizie di casa.

Erano trascorsi due anni quando volli credere all’uomo che era stato la causa della mia fuga dalla Nigeria. Mi lasciai convincere.

Mi aveva promesso che mai più mi avrebbe malmenata, mai più mi avrebbe offesa.

Gli dissi dov’ero e mi raggiunse in Libia.

Un altro suo seme danzò con un mio ovulo e insieme germogliarono dando origine a una nuova vita.

Appena scoprii di aspettare il mio secondo bambino, l’incantesimo si ruppe ancora una volta. Ed ecco quell’uomo ritrasformarsi nel mio carnefice.

Scappai di nuovo, con l’aiuto di un’altra donna.

Sbarcai in Italia a Palermo il ventinove maggio del duemilasedici dopo otto ore di viaggio in barca insieme ad altre centotrenta persone.

Polizia e carabinieri ci smistarono.

Io fui spedita a Bari. Poi spostata a San Ferdinando. Infine a Barletta dove vivo da quindici mesi.

La mia è una brutta storia. Brutta è la mia storia.

Mi chiamo Eniola. Sono nata il tredici settembre millenovecentonovantadue a Ijebu Ode in Nigeria. Ora vivo in Italia.

Ho imparato a fare sogni possibili.

Non sogno una vita principesca. Un principe non lo voglio neppure. Non lo posso pensare. Aiuterebbe solo la mia mente a ripensare agli uomini che hanno inquinato per sempre la mia idea dell’AMORE.

Voglio lavorare onestamente per assicurarmi una vita dignitosa.

Sogno di riabbracciare il mio primo bambino e di vivere serena insieme ai miei due figli.

Eniola Cognome, Nigeria

coautrici Graziamaria Porcelli e  Maddalena Gadaleta

***

* Primo premio, Concorso letterario nazionale “Lingua madre”2019, conferito il 13 maggio 2019, in occasione della XXXII edizione del Salone Internazionale del Libro a Torino.

Per gentile concessione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

Il racconto di Eniola Odutuga Tempesta dentro me, è stato pubblicato per la prima volta in Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia, a cura di Daniela Finocchi, Edizioni SEB27, Torino 2019 (© Concorso letterario nazionale “Lingua Madre” – Edizioni SEB27).


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Chi siamo? Gente assetata di conoscenza. La nostra sete affonda le radici nella propria terra, ma stende il proprio orizzonte oltre le Colonne d’Ercole. Perché Odysseo? Perché siamo stanchi dei luoghi comuni, di chi si piange addosso, di chi dice che tanto non succede mai niente. Come? I nostri “marinai/autori” sono viaggiatori. Navigano in internet ed esplorano il mondo. Sono navigatori d’esperienza ed esperti navigatori. Non ci parlano degli USA, della Cina, dell’Europa che hanno imparato dai libri. Ci parlano dell’Europa, della Cina, degli USA in cui vivono. Ci portano la loro esperienza e la loro professionalità. Sono espressioni d’eccellenza del nostro territorio e lo interconnettono con il mondo. A chi ci rivolgiamo? Ci interessa tutto ciò che è scoperta. Ciò che ci parla dell’uomo e della sua terra. I nostri lettori sono persone curiose, proprio come noi. Pensano positivo e agiscono come pensano. Amano la loro terra, ma non la vivono come una prigione. Amano la loro terra, ma preferiscono quella di Nessuno, che l’Ulisse di Saba insegna a solcare…

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