Nel 2008 l’editrice Castelvecchi ha pubblicato il Manifesto per la soppressione dei partiti politici, traduzione italiana, a cura di Fabio Regattin, della Note sur la suppression générale des parties politiques, di Simone Weil. A parte l’infelicità del titolo italiano, Simone non amava i “manifesti”, la nuova edizione consente ad un vasto pubblico di accostarsi ad un testo che André Breton ed Alain giudicarono assolutamente attuale.
L’opera uscì, infatti, nel 1950, 7 anni dopo la morte della Weil, quando ancora vive erano le piaghe provocate e dall’hitlerismo, in Italia dal fascismo, e dallo stalinismo, in Francia dall’asservimento del partito comunista francese agli ideali stalinisti. Non a caso l’incipit del saggio ricorda che, nella stagione amara dei totalitarismi, l’ideale era: “Un partito al potere e tutti gli altri in prigione”, per cui era lecito chiedersi se i partiti non fossero “un male allo stato puro, o quasi” (p. 24).
Appare del tutto prevedibile che, in tempi d’imperante antipolitica, una domanda del genere troverebbe una marea di risposte affermative. In realtà, nel ragionamento di Simone Weil si coglie facilmente l’influenza del suo maestro Alain, la cui tesi è la seguente: non i partiti, ma ogni singola persona/cittadino è portatore di diritti e doveri e come tale dovrebbe occuparsi di politica.
In effetti, la Weil riflettendo sulla nozione di “volontà generale” di Rousseau, concetto chiave di un sistema democratico, secondo cui sarebbe sufficiente seguire la ragione e tenere a freno le passioni, per tendere alla verità e alla giustizia, conclude che il problema consiste appunto nel far sì che un popolo, e non già una singola persona, possa tendere al bene comune senza lasciarsi frenare dalle passioni collettive. A tale questione, la Weil risponde che “qualunque soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti politici” (p. 31), che non sono altro che macchine “per fabbricare passione collettiva” (p. 31). Macchine che, grazie alla propaganda, opprimono le coscienze dei loro stessi adepti, ponendosi come oggetto di idolatria, al fine di assicurare non il bene comune, ma unicamente la loro crescita. Visto che nessuno candidato alla gestione del potere politico può affrancarsi dal tale condizionamento, l’autrice conclude che i partiti politici sono davvero un male e, di conseguenza, la loro soppressione sarebbe “un bene quasi allo stato puro” (p. 50). D’altro canto, aggiunge la Weil, quasi profetizzando quella che è la realtà a noi contemporanea, non è detto che non possano continuare ad avere vita liberi movimenti di opinione, purché lasciati allo stadio di entità fluide e non organizzate, prive di etichette e ogni altra forma di organizzazione.
Ora, per giudicare bene una simile proposta, il consiglio è quello di frequentare il pensiero della Weil, il suo metodo di ricerca e lavoro, le non poche contraddizioni della sua esistenza, prima di prendere quello che scrive così come è, alla lettera. La Weil infatti, pur non amando le etichette, è sempre stata quel che si dice una militante, nelle più diverse forme: pacifista e volontaria nella guerra di Spagna, prima, e nella Resistenza Francese, poi; sindacalista e anti-sindacalista; professoressa e operaia; atea e mistica… quante le vie sperimentate da Simone, alla ricerca della verità e della giustizia, del bene e del bello. E, in tutto questo, una libertà radicale di demolire tutti e tutto ciò che le sembrava un po’ meno che degno di ciò che è vero, giusto, buono, bello. Non è raro trovare negli scritti della Weil, in gran parte editi postumi, e in particolare nei suoi Cahiers, affermazioni contraddittorie e tra loro inconciliabili. La filosofa parigina arriva a fare della contraddizione una via per la verità e a sostenere che l’unico metodo della filosofia sia quello di trovare e isolare i problemi insolubili nella loro insolubilità, quindi di fissarli a lungo, anche per tutta la vita, in attesa che la luce sgorghi.
Si deve tener conto, quindi, di tutto questo, e di molto altro ancora, prima di issare la Weil sul palcoscenico dell’antipolitica. Perché in realtà la Weil ha fatto politica sino agli ultimi giorni della sua breve e intensa esistenza, quando, pur gravemente malata, continuava a chiedere con insistenza di essere impiegata da France Libre in una missione che comportasse il rischio della vita e intanto lavorava alla stesura de L’enrecinement, nelle sue intenzioni, una bozza della futura Costituzione francese.
La Weil amava la bellezza delle provocazioni radicali, ma quando scriveva di abolire i partiti sapeva anche che “per un singolare paradosso, le misure di questo genere, che non presentano inconvenienti, sono in realtà quelle che hanno la minore possibilità di essere attuate”. (p. 53) L’autrice era consapevole che i partiti possono pur essere, oggi come allora, privi di credito e autoreferenziali, ma gestiscono denaro e consensi, ovvero potere, ragion per cui la loro esistenza resta per molti versi una occorrenza difficile da superare.
Rimane da chiedersi cosa sarebbe dei partiti, se la politica d’improvviso cambiasse volto e, d’incanto, corrispondesse a quello che la Weil sognava: arte capace di comporre gli interessi su piani multipli, azione animata dall’attenzione alla giustizia, spazio di libera frequentazione non solo per i colletti bianchi, ma anche per operai e contadini. Insomma: una politica che non si servisse del potere, ma che fosse al servizio del bene comune…
Questo sognava Simone Weil e, in questo senso, non come deriva populista e antidemocratica, sarebbe davvero auspicabile la scomparsa dei partiti.
Chissà se il sogno della Weil possa essere ancora il nostro.
La risposta, in una domanda: se non questo, quale?