«È il genio, come una perla nell’ostrica, solo una splendida malattia?»

(Heinrich Heine)

Mi chiamo Gian Giacomo, ho due sorelle: Angelina e Lorenziola. Siamo figli di Pietro de Oreno e Caterina Scotti.

Penso di avere un qualche talento nascosto per la pittura, ma ho 10 anni, mi toccherà calare la testa ed accettare che il mio spiritello primordiale si lasci guidare da un qualche Maestro, in una qualche bottega, dove dovrò fare il garzone.

Vi fa strano che parli di botteghe e garzoni? Vi porgo allora le mie scuse, non vi ho detto che oggi è 22 luglio, sì, ma del 1490.

Sono a Milano, nella Corte Vecchia, davanti al Duomo ed è qui che mi stanno lasciando per consentirmi di imparare. Entro nella bottega del mio Maestro, Leonardo pare si chiami; annota tutto, non gli sfugge nulla.

Anche il mio arrivo è stato diligentemente appuntato.

Manoscritto C: “Giacomo venne a stare con meco il dì della Madonna del 1490, d’età d’anni 10″.

Amato Maestro, qui ci sono cotanto talentuosi allievi. Io non sono affatto certo di essere alla loro altezza, ma non ho molta voglia di tirare i remi in barca. Direi che posso tentare. Se mi hai lasciato entrare, qualcosa hai visto in questo nanetto, ed io di quello mi fido: del tuo istinto.

Solo che, Maestro, i tuoi allievi, con immenso rispetto ed il dovuto ossequio, da te apprendono e ti emulano, affinano con te le loro tecniche, sono vicini all’eccellenza. Io cosa posso mai fare in un contesto di questo tipo?

Ci penso: tagliare due camicie, un paio di calze ed un giubbone. Basta così? No, Maestro. Hai lasciato quattro denari qui di fianco, devi pagare quei tessuti. Ho lo spiritello primordiale io: loro ti adorano, io ti rubo i denari e nulla potrai, per farmelo confessare.

“Ladro, bugiardo, ostinato, ghiotto”: così il Maestro mi ha apostrofato nei suoi appunti. Come dargli torto?

Ho smesso di essere Giacomo.

Come in ogni rapporto che si rispetti, il dissacrante deve prendere un nome diverso da quello dei registri ufficiali ed assumerne uno a misura di personalità. O, perlomeno, a misura di quel tratto di personalità che sta rapendo l’osservazione dell’Osservatore.

Da un certo giorno io sono Salaì, è strano abbia un nome tutto mio. Sono ladro, bugiardo, ostinato e ghiotto: perché a me un nome dedicato?

Ma se ho già detto che il mio Maestro ha istinto da vendere, evidentemente deve avere un motivo. E deve anche avere una certa dose di attrazione per me.

Inoltre, deve aver sentito quella che io ho per lui e deve essere stato così all’altezza del suo stesso essere sottile, da beccare in quel nomignolo esattamente ciò che fa di me quel che sono.

È attento il mio Maestro: credo mi detesti, senza poter fare a meno di amarmi. Anzi, dev’essere per questo che, penso, mi tolleri più che altro. Almeno per il momento.

Salaì non è che il diminutivo di Saladino, l’infedele del Morgante. Il mio nome evoca una potenza irrequieta, dissacrante, spavalda, infernale. Vai a vedere che sono apparso come un piccolo diavolo?

Non lo posso permettere.

Sono Salaì, il braccio destro del mio Maestro.

Ormai non c’è spostamento che non ci veda uno di fianco all’altro: Milano, Firenze, Roma. Ed io, io saprò seguirlo? Mi domando, per esempio, chi di noi sarà accanto all’altro in punto di morte?

Mentre mi perdo in inutili questioni, credo di aver sviluppato un discreto talento, ma non riesco ad abbandonare me stesso e la mia indipendenza mentale.

I miei colleghi, quegli allievi eccelsi, hanno dipinto opere imbarazzanti in bellezza. Spesso vi ritrovo il volto del mio Maestro riproposto anche nel Cristo trentatreenne. Trovo il loro modo di fare assolutamente ortodosso.

Chissà se mai capirete chi, fra Boltraffio e Leonardo ha davvero dipinto il Salvator Mundi e se mai riuscirete a scoprire a chi sia venuto il guizzo di dipingere un Leonardo all’età perfetta dei 33 anni, su quella tela sacra!

Ed io? Io ce l’ho in mente “uno Cristo in modo de uno Dio Padre.

È il 1511 e l’ho realizzato davvero un Cristo atteggiato a Salvator mundi.

Non vi farò impazzire per trovarne la paternità. Certo vi chiederò attenzione, sono uno spiritello dispettoso. Se saprete leggere, troverete la mia firma: FE. SALAI. 1511. DINO.

Sono certo che, se non finirò nell’oblio, esisterà qualcuno in grado di farsi un’idea. Avrò forse riportato: “Fecit Salaì 1511 Domini Nostri”? Magari qualcuno scriverà un libro in cui anche questo sarà annotato. Chissà.

Divagavo, ma ho scelto, per il mio Maestro, un Amore diverso: non voglio riprodurne il volto, nella tecnica e nello stile.

Lui non merita una minestra riscaldata, perché la mia si ridurrebbe solo ad essere quello.

Non mi chiamo Cesare De Sesto, Giovanni Antonio Boltraffio, Marco d’Oggiono. Le loro no, non sarebbero opere di second’ordine, in nessun caso.

Io mi chiamo Salaì e non voglio seguire un uomo. Io sono già un uomo; voglio seguire l’idea, l’acume, il picco. E voglio la mia idea, il mio acume, il mio picco.

Eccolo il mio Salvator Mundi, sono io il trentatreenne sulla mia tela, ora conoscete il mio volto, quello del diavoletto che sta scegliendo di andare oltre: io non voglio dipingere il mio Maestro.

Se lo amo, come posso tener conto solo del suo corpo? Il problema è l’allargamento alla ragione. Allora devo tener conto dei suoi pensieri, delle sue paure, dei suoi desideri.

Stanotte ho fatto un sogno. Ero in un tempo tanto futuro da non sapere nemmeno se mai esisterà (per come la vedo io, il genere umano meriterebbe di estinguersi molto prima).

Lì c’era una strana donna perdutamente innamorata del mio Salvator Mundi. Di lui avevano detto: “Non è Leonardo, ma è un capolavoro”.

L’aveva studiato con tutti i mezzi che possedeva: ne conosceva i colori, i ricami sullo scollo, le allusioni che rimandavano alla corona di spine che non volli dipingere. Quella donna aveva letto oltre quel quadro: la mancanza di controllo porta l’artista ai livelli più alti. Ci aveva visto la sobria ebrietas di Filone di Alessandria ed aveva colto il mio intento.

Lei, amante del mio Maestro, mi fissava nel mio dipinto e si lasciava fissare.

Così mi rivide in ogni sua opera: era investita dall’atteggiamento sornione del mio sguardo, la punta sottile del mio naso, l’angolo sinistro della mia bocca che tornava in ogni volto nato dalle dita del grande genio.

Lei riteneva che io pensassi quanto segue: sono Salaì, la Perla di Leonardo da Vinci.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.