Controsenso. Usi e abusi delle parole quotidiane
Esiste un tipo di silenzio più assoluto ed impenetrabile, severo e serio allo stesso tempo: è il silenzio della morte, questa realtà non slegabile dalla vita, questa grande domanda capace di suscitare, ogni volta che la si pensa o se ne fa esperienza, altre mille domande.
La morte è silenzio, per chi muore e per chi resta. Chi muore tace, con la lingua, con il corpo. Chi resta piange, parla, si sfoga, cerca di elaborare; ma dentro sente silenzio e, forse, di silenzio ha intimamente bisogno.
Eppure oggi il silenzio attorno alla morte è più un mutismo, perché non se ne parla affatto. È naturale: chi vorrebbe parlare della morte, farne un pensiero o un oggetto di riflessione? Secoli addietro, soprattutto in ambito monastico, si era soliti meditare sulla morte almeno una volta al giorno: per la serie «ricordati che devi morire». Non di rado nei ritratti di alcuni grandi santi si scorge il teschio, elemento che faceva parte del corredo del religioso e aveva il compito di riportargli continuamente mente e cuore alla fine, o meglio al fine. Si tratta dell’ars moriendi, un atteggiamento esistenziale volto alla relativizzazione di ogni aspetto della vita terrena alle “cose di lassù”, come direbbe san Paolo.
Oggi si assiste ad una inversione di rotta totale. In effetti come potrebbe l’homo sapiens sapiens tecnologicus concepire qualcosa in grado di sconfiggerlo, di ricordargli il limite? Del resto “sei tutti i limiti che superi”: spot e slogan pubblicitari, canzoni, stampe di felpe e t-shirt ce lo ricordano costantemente.
Il problema non è il dolore di un distacco, anzi! Quella sofferenza è indice di quanto ci si è amati, di quanto i legami siano la parte migliore di noi e rappresentino una sfida alla morte stessa, perché le resistono imperturbati. I legami sono l’opportunità più grande di diventare noi stessi e di crescere nella libertà autentica e nessuna parola potrà mai adeguatamente consolare un’anima in lutto per la morte di qualcuno.
Il vero dramma sta nella negazione: non parlare della morte, far finta di nulla (soprattutto con i bambini “perché si spaventano”) e, quando arriva, continuare a fare la vita di sempre. A tal proposito è significativo notare come stia scomparendo, soprattutto nelle grandi città, l’usanza di tenere il morto in casa prima del funerale, perché non si vuole disordine, perché non si è pronti ad accogliere il dolore tra le mura di casa, a concepire che la routine quotidiana sia interpellata e spezzata da qualcosa di sconvolgente.
Che cosa è accaduto? Certamente in un clima di crescente secolarizzazione e scristianizzazione si potrebbe affermare che la fine è stata staccata dal fine: Dio è stato estromesso anche dal discorso sulla morte, per cui l’uomo si ritrova, senza meta e senza speranza, a piangere i propri morti senza alcuna certezza sul loro “destino”. Tale affermazione, tuttavia, non solo non basta, ma può dare adito a pericolosi riduzionismi. Anche il credente, saldo nella speranza della risurrezione, piange i propri defunti e non comprende appieno il senso della morte …e nessuno dovrebbe usare i contenuti di fede per tentare di dare risposte consolazioni a buon mercato! Se continuare a credere nel Risorto e non lasciarsi vincere dalla disperazione è segno di fede in Dio, le lacrime per una perdita sono il sacramento della fiducia nell’amore, nelle persone, nelle relazioni. E non c’è fede in Dio senza passione per l’uomo.
Ecco, forse il punto è questo: quanta passione si ha oggi per l’umano? A parole tanta, nei fatti forse poca. Perché si inseguono modelli illusori e paradigmi tecnocratici pericolosi, secondo i quali bisogna solo funzionare e produrre. Ogni falla, ogni intoppo nel sistema è scarto, figuriamoci il limite. Ma non c’è vita senza limiti, per cui bisogna far pace con essi e riscoprirsi capaci di cose belle non “nonostante i limiti”, ma proprio “in virtù di essi”.
Non si tratta di una soluzione alle domande e al dolore della morte, piuttosto di una strada per giungere a nuove consapevolezze. Forse rinunciando alla pretesa di funzionare sempre al massimo e imparando a coltivare il senso quotidiano del limite nella relazione con sé stessi, con gli altri, con gli animali, con il lavoro, con ogni cosa, sarà più semplice pacificarsi con la propria finitezza e concentrarsi sull’unica forza capace di resistere al freddo del non-senso e del distacco: l’amore. La consapevolezza di aver amato resta, nel silenzio della morte, la carezza più grande e la certezza dell’inestinguibilità di certi legami anche nell’assenza.
«Non provare pietà per i morti, Harry, provala per i vivi e per coloro che vivono senza amore»: dice Silente in Harry Potter e i doni della morte. Non si può che dargli ragione.
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Avrei voluto scrivere io quanto da Lei esposto…i miei complimenti.
Michele Carretta
Difficile parlare della morte…ma se altri riescono a farlo in modo così eccellente significa che dobbiamo lasciarci aiutare e guidare da chi sa trovare parole meravigliose per rendere più accettabile ciò che appare sempre insormontabile e lontano da noi! BRAVA MIKI!!!
Grazie del vostro sostegno e affetto, sono felice di sapere che con una delle cose che più amo, cioè scrivere, posso essere un dono. Un abbraccio