“E così avvenne…  e questo fu l’inizio… Cieli, ditemi perché, perché!”

In questi giorni siamo sopraffatti da testimonianze, film, documentari. Non possiamo sottrarci, e come potremmo? Così ci capita di sentirci a disagio, non solo per quello che dicono, ma perché destano in noi sensi di colpa che non riguardano solo il passato, ma anche il presente. Ci dicono che l’indicibile, l’inaudito è avvenuto, e può avvenire ancora. Non è facile accogliere questa verità, subito la allontaniamo, cerchiamo di non pensarci, come abbiamo smesso di pensare a quello che è avvenuto nell’ex-Jugoslavia. Per poter pensare davvero abbiamo bisogno di silenzio e di parole essenziali, che scavano dentro di noi, parole non effimere, parole pronunciate da persone che non si sono ritratte di fronte all’inaudito, all’indicibile della catastrofe, della Shoah. Le parole essenziali sono quelle giunte a noi, fortunosamente, dall’interno della catastrofe o in prossimità di essa. Queste parole dobbiamo far risuonare in noi, non solo oggi, ma ogniqualvolta l’indifferenza, sempre in agguato, minaccia di ripetere quello che è avvenuto o gli si avvicina.

Questi poeti fanno parte del popolo dei sommersi, o dei pochi scampati, che dallo sterminio sono tornati  consegnandoci  i versetti di una nuova scrittura.

Qui in Italia, Primo Levi, in Europa Nelly Sachs, Paul Celan e altri. Ho riletto i loro versi e ho pensato: e quelli degli altri poeti ebrei finiti nei lager sono svaniti nell’aria con loro? Dove sono ora quelle parole? Acquattata in seconda fila, quasi dimenticata, nella mia biblioteca ho ritrovato una corposa Antologia della poesia yiddish e sono corso all’indice per vedere quanti tra i poeti scelti sono morti tra il 1940 e il 1944.  Sono molti, e la loro voce attende ancora di essere fatta risuonare. Di uno di loro vi voglio dire, perché la sua vicenda è esemplare. Si chiama Ytzhak Katzenelson ed è nato nel 1886 a Karelitz, in Bielorussia. Allo scoppio della guerra le sue poesie sono già conosciute nelle comunità della Polonia, sono lette, recitate e cantante dagli Ebrei rinchiusi nel ghetto di Varsavia, dove lui si trova con loro a resistere, a lottare. Quando, impotente, assiste alla deportazione a Treblinka dei due figli e della moglie, riesce con un falso passaporto a raggiungere Parigi. Arrestato, internato a Drancy, viene condotto nel campo di Vittel, per essere infine avviato verso Auschwitz, dove verrà gasato nel 1944. Prima di partire, consapevole della tragedia del suo popolo, non tace, ma compone il Canto del popolo ebreo massacrato. Ne sigilla il manoscritto in tre bottiglie e le sotterra sotto un albero del campo. Un’altra copia sarà ritrovata nel manico della valigia che porta con sé. Il cielo – o il caso? – ha voluto che giungesse fino a noi perché nei suoi versi leggessimo le parole dei nuovi profeti. Ecco le strofe centrali:

 

E così avvenne…  e questo fu l’inizio… Cieli, ditemi perché, perché!

Perché dobbiamo essere tanto umiliati in questo modo?

La terra sorda e muta, ha chiuso gli occhi… Ma voi cieli,

voi dall’alto avete visto tutto e non siete crollati dalla vergogna!

Non una nuvola ha coperto il vostro vile azzurro, che come sempre mostrava il suo falso splendore;

il sole, rosso come un carnefice feroce, ha continuato il suo corso;

la luna, come una vecchia puttana, come una peccatrice, è uscita di notte a passeggiare,

e le stelle ammiccavano luride come occhi di topi.

Basta! Non voglio più guardarvi, non voglio più vedervi…

O cieli falsi e bari, cieli infimi pur così in alto; o mio dolore!

Un tempo ho creduto in voi, vi ho confidato le mie pene e le mie gioie, le mie lacrime e i miei sorrisi –

Voi non siete migliori della terra, di questo mucchio di letame!

Vi lodavo, cieli, vi esaltavo in tutti i miei canti.

Vi ho amato come si ama una donna: ma ora se ne è andata, dissolta come schiuma.

Fin dall’infanzia il vostro sole, fiammeggiante nel tramonto,

l’ho somigliato alle mie attese: «Così svanisce la mia speranza, così sfuma il mio sogno!».

Basta! Basta! Vi siete presi gioco di noi, del mio popolo e della mia stirpe!

Da sempre ci avete presi in giro – anche i nostri padri, anche i nostro profeti!

Verso di voi hanno alzato i loro occhi, nella vostra fiamma si sono accesi;

sempre fedeli, per nostalgia di voi si sono consumati. […]

Non c’è Dio in voi! Aprite le porte, cieli, spalancatele,

e lasciate entrare i figli del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato.

Aprite le porte per la grande.– ascensione: un intero popolo crocifisso

sta per arrivare… ognuno dei miei figli massacrati può essere un Dio!

 

Questi poeti, questi profeti, Ytzhak Katzenelson e i suoi compagni, svaniti nell’aria, gli insegnanti li leggano ai loro alunni, glieli consegnino perché li rileggano in silenzio, li assumano come farmaco contro l’indifferenza. Indifferenza sempre acquattata in noi, sempre pronta ad avvolgerci e paralizzarci. Ieri come oggi. Sempre.

 

* In italiano di questo Canto esistono due versioni: quella della Giuntina (1998) e quello della Mondadori, a cura di Erri De Luca(2009).


Fontehttps://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Child_survivors_of_Auschwitz.jpeg
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Domenico Canciani ha insegnato Lingua e civilizzazione francese nell’Università di Padova, occupandosi di Minoranze, storia intellettuale nella Francia del XX secolo e nel Maghreb, dei temi del dialogo interreligioso curando gli scritti di Louis Massignon (L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam, 2002; La suprema guerra santa dell’islam, 2003). Da anni si dedica allo studio della vita e del pensiero di Simone Weil, pubblicando articoli e monografie. Nel 2012 il volume Simone Weil. Le courage de penser, sintesi delle sue ricerche, ha ricevuto il Prix Biguet de l’Académie Française. Con Maria Antonietta Vito ha avviato una sistematica traduzione e cura di molti scritti della pensatrice francese.