Non mi accorsi del momento in cui varcai per la prima volta la soglia di questa vita.
Quale fu il potere che mi schiuse a questo vasto mistero, come un bocciolo nella foresta a mezzanotte?
Quando al mattino però fissai la luce, mi accorsi in un attimo che non ero uno straniero in questo mondo,
mi accorsi che l’Imperscrutabile senza nome e forma mi abbracciava sotto l’aspetto di mia madre.
Così, allo stesso modo, al momento della morte, l’Imperscrutabile mi apparirà come se l’avessi sempre conosciuto.
E siccome io amo questa vita, so che amerò anche la morte.
Un bambino piange quando la madre lo stacca dal seno, ma trova subito conforto nell’altro.
Gitanjali XCV
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Dell’impronta interculturale dell’opera di Tagore restano come vive testimonianze Santiniketan e l’Università Visva Bharati (“Il nido del mondo”), dove è continuata l’attività educativa secondo i principi del Brahmo Samaj e della grande famiglia Thakur.
Rabindranath viaggiò instancabilmente in tutto il mondo (anche in Italia nel 1925) per promuovere la costruzione di Visva Bharati, dove il sapere e la creatività artistica potessero fiorire nella gioia della condivisione, al di là di qualunque differenza di religione, lingua, nazionalità.
Nella raccolta di saggi “Sadhana – La vera essenza della vita “ (1913) T. affronta le domande fondamentali, unificando e citando insieme le concezioni induiste, buddiste, cristiane. E’ una raccolta di conferenze tenute proprio a Santiniketan.
Nella prima T. spiega chiaramente l’irriducibile differenza fra la civiltà occidentale e quella indiana:
“La civiltà dell’antica Grecia si sviluppò dentro le mura cittadine e invero tutte le civiltà moderne hanno avuto la loro culla di calce e mattoni. Queste mura lasciano una traccia profonda nelle menti degli uomini. Noi separiamo nazione da nazione, scienza da scienza, l’uomo dalla natura, il che ci rende fortemente sospettosi verso tutto ciò che è al di là delle barriere da noi sollevate e fa sì che ogni cosa debba aspramente lottare per riuscire ad essere presa in considerazione da noi.
Nella vita di città l’uomo volge naturalmente tutta l’intensità della sua vita e le sue opere e ciò genera un’artificiale dissociazione fra lui e la Natura universale nel cui grembo egli vive”.
“La civiltà indiana, invece, sviluppatasi nelle foreste, comprende il mondo e l’uomo in un unico grande vero”.
“L’uomo accusa la natura di essere costretto a procurarsi con fatica la maggior parte delle cose necessarie. E’ vero, ma il suo lavoro non è vano. Il successo gli arride continuamente perché tra lui e la natura esiste un rapporto razionale.”
Dunque Tagore ebbe ben chiare le differenze fra la cultura occidentale e, in generale, fra le diverse culture con cui entrò in contatto da cosmopolita quale fu: gli elementi invariabili, originari di ciascuna cultura sono paragonati al corso dei fiumi, tutti diversi, ma tutti confluenti in uno stesso mare.
Per la cultura occidentale Tagore, che aveva vissuto a lungo nel Regno Unito, si pone il problema del superamento dell’io, a cui dedica la quarta conferenza di Sadhana.
“Io sono io, assolutamente unico…. Noi siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, ma il fine dell’io non risiede nella sua separatezza, ma nell’unione, nel dono di sé, nell’amore.”
“La vera libertà non consiste nell’essere esenti dal bisogno di operare, ma nello scegliere il genere delle nostre azioni: e questa libertà può solo accompagnare le opere ispirate dall’amore.”
“La stessa creazione non ha avuto origine da necessità alcuna, ma è venuta dalla pienezza della gioia”.
Non si tratta di un cammino facile, al contrario. Tagore, che fu un allievo molto difficile, precisa:” La nostra volontà deve arrivare alla sua pienezza per mezzo dell’indipendenza e della ribellione. Dobbiamo dunque avere la possibilità di sperimentare la forma negativa della libertà, cioè la ribellione, prima di arrivare alla libertà positiva dell’amore”.
Il mondo è sempre vecchio e sempre nuovo e “il nostro io deve avere conoscenza della sua proprietà di rinascere ad ogni istante della sua vita”.
Il fine del nostro io è “cercare l’unione con l’universale” e per farlo “deve guadagnare col perdere e innalzarsi per sottomettersi”.
Alla fine del saggio, a sugellare la semplicità profonda del suo pensiero, Tagore conclude con la similitudine di un bambino, quei bambini a cui dedicò poesie e canti:
“Un bambino avrebbe orrore dei suoi giochi se gli impedissero di tornare poi alla madre: così l’orgoglio che abbiamo della nostra personalità si convertirebbe in maledizione per noi, se non fossimo capaci di rinunziarvi per l’amore”.