C’è da lavorare ad una antropologia relazionale a livello elevato, un po’ come  per la tecnologia medica di alto livello

In questi ultimi decenni, più che nel  passato, anche in Italia dei ricercatori, impegnati nei vari campi, stanno accompagnando l’attività di ricerca con una non trascurabile produzione di scritti dediti alla presa di coscienza del loro ruolo nel contesto culturale più in generale; oltre a fornirci del materiale di alta divulgazione di ciò che succede nei settori di punta in cui sono coinvolti, tali contributi si rivelano  preziosi punti di riferimento per la stessa chiarificazione epistemologica delle rispettive discipline col fornire in tal modo agli storici e agli stessi filosofi della scienza degli strumenti concettuali più in grado di comprenderne la portata veritativa e culturale, a volte non facilmente percepibile data l’enorme mole di conoscenza prodotta in ogni campo. Orientato in tal senso è l’impegno profuso in questi ultimi anni da un ricercatore medico come Domenico Ribatti che, oltre ad aver dato dei contributi significativi nel campo dell’Anatomia umana, si sta cimentando nella non facile arte di Raccontare la scienza, titolo dato ad una sua opera del 2016, insieme ad altre come Un medico d’avanguardia. Gianni Bonadonna e la chemioterapia dei tumori  (2015), Agli albori dell’embriologia sperimentale  (2016),  L’immunologia nel Novecento (2017), La cura del cancro nelNovecento (2017), Il medico dei Nobel. Giuseppe Levi anatomista ed istologo (2018) e con Francesco Paolo De Ceglia, Rodolfo Amprino e l’insegnamento dell’anatomia nella Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degliStudi di Bari (2019).

Ma ciò che rende più significativa l’ulteriore sua opera  La buona medicina. Per un nuovo umanesimo della cura (Milano, La Nave di Teseo 2020), è la riflessione epistemologica sullo status attuale delle scienze biomediche sulla scia dei più recenti risultati raggiunti nei diversi ambiti, a partire dalla genetica molecolare alla genomica, dall’epigenetica alla trascrittomica, dalla proteomica alla metabolomica;  tali discipline, sorte grazie all’approccio della biologia dei sistemi basato sulla complessità,  permettono una maggiore conoscenza dell’individuo sino ad arrivare a sottolinearne con diverse articolazioni l’unicità. Tutti questi recenti sviluppi per Ribatti ‘obbligano a ripensare la medicina nei suoi fondamenti’ perché tali esiti sono ritenuti cruciali, come diceva prima il fondatore della medicina sperimentale Claude Bernard per i suoi tempi e poi in alcuni campi dell’immunologia più vicina a noi, e nello stesso tempo portatori di complesse problematiche filosofiche a cui non ci si può sottrarre; e ciò si rivela ancora più necessario per non rimanere invischiati in un ingenuo empirismo dei fatti con tutto il loro corredo di ‘ismi’ tali da confinarli ormai in un ‘cimitero’, per usare una efficace metafora  del neurofisiologo e Premio Nobel Gerald Edelman  che, nell’avanzare la teoria sulla plasticità del cervello col pervenire da parte sua all’unicità di ognuno di noi, non a caso si è impegnato  nei suoi diversi scritti  in una costante riflessione di tipo epistemologico per denunciare gli esiti riduzionistici imperanti in molta letteratura filosofico-scientifica.

Sollecitato da  indagini storico-concettuali come quelle meno recenti ma fondamentali di Georges Canguilhem sul normale ed il patologico, di Mirko Gmerk  e da quelle più recenti di Giorgio Cosmacini e di Paolo Vineis, Ribatti ci offre  un prezioso panorama di quelli che chiama ‘nuovi orizzonti della medicina’ con le diverse implicazioni da quello strettamente conoscitivo a quello sociale della cura che, riviste alla luce delle ultime e contraddittorie vicende legate al Covid-19, appaiono ancora più pregnanti e foriere di ulteriori punti di vista. Ma per avere una idea dell’impresa di Ribatti e di  pochi altri studiosi italiani, è da tenere presente che le ricerche storico-epistemologiche sulla medicina, che  già nell’Ottocento accompagnavano i  celebri lavori di fisiologia di Claude Bernard  e di virologia da parte di Rudolf Virchow, in Italia solo in questi ultimi decenni stanno avendo una più adeguata attenzione, se si escludono i fondamentali contributi dati nei primi anni del Novecento da Augusto Murri sul metodo e da pochi altri nella seconda metà del secolo come Giorgio Federspil  e Dario Antiseri, a cui è da aggiungere il Seminario di Storia della Scienza fondato a Bari da Mauro Di Giandomenico con la sua scuola.

Il problema centrale affrontato da Ribatti è quello di ridefinire lo status epistemico della medicina e di prendere atto della complessità che ne emerge alla luce dei risultati più recenti che portano verso ‘la personalizzazione dei percorsi diagnostici e terapeutici’, risultati che da un lato, come dicono Cosmacini e Gilberto Corbellini, portano a prendere atto in maniera netta che essa medicina è una ‘pratica basata su scienze’  ed è una ‘tecnologia complessa’ nell’avviarsi a diventare sempre più ‘medicina di precisione’ grazie all’intelligenza artificiale; ma dall’altra essa ‘opera in un mondo di valori’ e come tale Ribatti sottolinea che non può ridursi ad essere solo una ‘scienza dei casi clinici’, una ‘branca della tecnologia’ affidata a tecnici specialistici, ma si fonda essenzialmente sulla ‘relazione terapeutica’  dove l’obiettivo finale è arrivare ‘ad una terapia non per la malattia, ma per il singolo paziente’ con a portata di mano la coscienza che il medico prende delle ‘decisioni in condizioni di incertezza’. In ogni occasione ci si trova a che fare sempre con l’uomo come ‘bios ed essere sociale’, donde la necessità di progettare ‘terapie variabili’ da soggetto a soggetto oggi più che mai rese evidenti grazie agli sviluppi delle neuroscienze, come la neuropsicofisiologia e la conseguente  bioneurofarmacologia, i cui risultati possono trovare la loro unità nella ‘cura’ che è il momento relazionale più umano dove, a dirla con Pavel Florenskij, ‘si incarna l’anima della verità’ ed in questo caso, quella della medicina una volta però immessa nei suoi fondamenti questa sua duplice dimensione.

Per questo, sulla scia di Virchow e di Augusto Murri, si ritiene che la salute è il prodotto di diversi fattori che interagiscono tra di loro con la necessità di aprire ‘la clinica a problemi complementari’, come a quelli sociali ed economici, fattori che com’è noto portarono alla medicina sociale e all’istituzione della figura del medico di famiglia che, come sempre, deve saper coniugare ‘scienza ed assistenza’ ed essere attento alla persona e alla sua unicità donde le conseguenti incertezze col grado di probabilità implicito nel suo intervento. Per questo Ribatti ne rivaluta a più riprese il ruolo mettendosi sulla scia di quella che da più parti viene chiamata ‘medicina narrativa’ per far fonte al ‘crescente tecnicismo della pratica medica’; e anche perché la prassi del medico di famiglia è ‘il tramite tra il malato’ e tale pratica che spesso ‘tende a sottovalutare le implicazioni psicologiche e affettive dello stato di malattia’.

Con Murri  e sulla scia dell’oncologo Gianni Bonadonna si sottolinea, pertanto, che la medicina porta in ogni occasione con sé un valore fondante, quello antropologico, e ben praticata con l’ausilio indispensabile delle nuove tecnologie, è portatrice di un intrinseco ‘processo di umanizzazione orientato verso la persona’. Ribatti, pertanto, dall’analisi epistemologica  degli ultimi risultati tecno-scientifici e del loro impatto   sociale, ricava la necessità di lavorare ad una ‘antropologia relazionale a livello elevato come la tecnologia medica di alto livello’, ritenuto in questi ultimi tempi da più parti  un impegno ineludibile; per evitare di essere dei giganti in campo tecnologico e dei nani in campo etico-sociale con le conseguenti discrasie se non proprio a volte schizofrenie, siamo tutti invitati a costituire insieme una comunità etica ed epistemica più equilibrata, a costruire una rinnovata fronesis nel senso greco del termine, dove l’alto livello raggiunto da una tecnologia non sia disgiunto da un alto livello di adeguata responsabilità che va costruito giorno dopo giorno senza cadere in facili trionfalismi da una parte  ed in velleitari rifiuti  con toni apocalittici dall’altra.


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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.