«Bisogna resistere e aggrapparsi alla vita, alla vita! A me dispiace che ho già novant’anni e non me ne rimangono tanti»

«Questa parola “vita” che non bisogna sprecare. Non bisogna perdere neanche un secondo di questa vita, di questo tic-tac che va senza scampo. Qualcuno ogni tanto mi chiede: “Come avete fatto a non scegliere di morire? Come avete potuto resistere a tanto odio e a tanta violenza?” Pochissimi hanno scelto la morte. Come quelli che sono appesi ad un filo, i malati terminali che sono legati al filo della speranza. Quanti sono quelli che scelgono di morire? Pochissimi. Bisogna resistere e aggrapparsi alla vita, alla vita! A me dispiace che ho già novant’anni e non me ne rimangono tanti». È un passaggio tra i più forti della testimonianza che Liliana Segre ha tenuto il 20 gennaio scorso al teatro Arcimboldi di Milano, seguita in streaming da tantissime scuole in tutta Italia e che oggi, nella giornata dedicata alla memoria delle vittime della Shoah, acquista una rilevanza tutta particolare.

Liliana Segre appare una donna provata ma forte, tenace, che insieme alla ceca e bestiale violenza subita, ricorda soprattutto la pietà dei detenuti del carcere di San Vittore i quali, affacciandosi dai corridoi ad ebrei appena arrestati dai fascisti, lanciano chi una mela, chi una sciarpa o una benedizione, insieme ad un grido di benevolenza: «Coraggio, ce la farete. A differenza nostra, voi non avete fatto niente di male». È la memoria di questa pietà che Liliana Segre vuole tramandare alle nuove generazioni: «La pietà è una cosa bellissima. È la pietas, quella cosa per cui si fa del bene anche a chi non si conosce». E nella sua testimonianza il contrario della pietà è l’indifferenza: «Dopo le legge razziali del 1938, io non potevo più andare a scuola. Da quel momento in poi per le mie compagne io non esistevo più. Come quell’ufficiale svizzero che ci rispedì in Italia dopo una lunga marcia per raggiungere il confine. Era un uomo come me, come noi, eppure rimaneva indifferente ai pianti e alle lacrime che io, ancora bambina, riversavo sui suoi piedi».

E poi, dopo il viaggio verso quella “destinazione ignota”, in cinquanta in un vagone solo con un secchio per i bisogni, la nuova “vita” ad Auschwitz: «Alla sera si tornava al campo; e c’era la visione di quella fiamma o di quel fumo per cui sapevamo cosa era successo. Ma noi non volevamo guardare. Eravamo diventate delle lupe affamate. Non volevamo guardare alle prigioniere picchiate fino al sangue. Non volevamo guardare quella fiamma. Per noi era importante solo quel pezzo di pane che attendavamo dalla mattina. E quel pane era importantissimo per noi, e lo divoravamo in tre minuti. E oggi, solo a Milano in un giorno solo si buttano quintali di pane… Mangiavamo quel pane con una voracità spaventosa». Per la sola colpa d’essere nati.

Un grido, quella della Senatrice a vita, che non può e non deve rimanere inascoltato. Oggi più che mai solo la pietà verso l’altro può impedire al mondo di naufragare in una nuova barbarie. Solo non chiudendo gli occhi e non girando lo sguardo dall’altra parte, il mondo potrà tornare a respirare in un clima di rispetto, amore e fratellanza, senza mai più condannare l’altro per la sola colpa d’essere nato.

La voce forte di D. Bonhoeffer, pastore protestante ucciso dal regime nazista il 9 aprile 1945, svegli la nostra coscienza. Da Resistenza e resa: «Siamo stati testimoni silenziosi di azioni malvagie, ne sappiamo una più del diavolo, abbiamo imparato l’arte della simulazione e del discorso ambiguo, l’esperienza ci ha resi diffidenti nei confronti degli uomini e spesso siamo rimasti in debito con loro della verità e di una parola libera, confitti insostenibili ci hanno reso arrendevoli o forse addirittura cinici: possiamo ancora essere utili? Non di cinici, di dispregiatori di uomini, di strateghi raffinati avremo bisogno, ma di uomini schietti, semplici, retti».