Alda Merini «Io quest’anno ho spento le candele: tutti mi hanno invitato, ma quella notte non farò nulla di diverso, nulla che io non faccia sempre, proprio come quando ero bambina; al limite si cambiava stanza, si andava dalla camera al tinello per vedere se era arrivato Gesù, e per mangiare il panettone, che allora si chiamava “el pan de Toni”…».

Difficile immaginare una tavola natalizia priva del panettone, il dolce tipico che, in realtà, sarebbe buono tutto l’anno, ma di fatti ha legato il suo consumo alla festa del Natale.

Ma quanti sanno in quale epoca affondi le sue origini il panettone?

Secondo Pietro Verri, già nell’800, a Milano e dintorni, le famiglie cristiane era solite festeggiare il Natale condividendo un “pane grande” che veniva spezzato dal pater familias.

Di sicuro, il primo documento scritto che attesta la consumazione di un “pane di Natale” risale a circa 750 anni dopo, per l’esattezza al 1599, quando nel collegio Borromeo di Pavia fu servito agli studenti del convitto un pane natalizio cotto con burro, uvetta e spezie.

La leggenda più bella è però quella del “pan del Toni” (da cui, in lombardo, panatton o pane’tun). Secondo tale leggenda, un duca di nome Agamennone invitò a casa sua per il pranzo di Natale tutti i nobili del circondario. Ovviamente, incaricò il suo cuoco di preparare un menù con i fiocchi con tanto di sontuoso dolce natalizio. Disgrazia volle, però, che il cuoco, preso da mille incombenze, dimenticasse il dolce nel forno (alzi la mano colui o colei ai quali mai è capitata la stessa disgrazia…) e che il suo sguattero, di nome Toni, lo trovasse disperato a chiedersi cosa fare a quel punto, visto che non poteva di certo servire un dolce carbonizzato. Toni osò suggerire: “Maestro cuoco, in dispensa ho trovato un po’ di rimasugli: un pugno di farina, delle uova, un po’ di burro, qualche acino di uvetta e della scorza di cedro. Impastandoli insieme avevo preparato un dolce per la mia famigliola. Ma, se vuole, glielo dono di cuore: provi a vedere se potrà piacere ai nobili convitati”.

Non vedendo altre chances, il cuoco accettò, servì il dolce e attese la reazione dei commensali. Questi, con sua grande meraviglia, furono così estasiati che vollero subito conoscerne l’autore, al che il cuoco, in sincerità e gratitudine verso chi l’aveva tratto di impaccio, confessò: «L’è ‘l pan del Toni».

Così, nacque, il panettone che, pensate, oggi, nella sola Italia, viene prodotto per non meno di 100 milioni di pezzi all’anno.

Ma come si fa il panettone? Lo abbiamo chiesto a Marinella e Riccardo, del panificio Do.Sa.

Marinella: «La ricetta è lunga e laboriosa, ma prima di tutto bisogna selezionare elementi genuini».

«Esatto – le fa eco Riccardo – noi usiamo solo olio EVO, uova fresche di giornata, burro, uva sultanina di prima qualità. Il panettone tipico della ricetta milanese deve contenere non meno del 20% in peso sul prodotto di uvetta sultanina, scorze di arancia candite e cedro candito sull’impasto, mentre almeno il 10% dell’impasto deve essere costituito da materia grassa butirrica».

E poi?

«Poi – continua Marinella – bisogna armarsi di pazienza. Per un panettone di qualità, come quello artigianale a marchio Do.Sa, ci vogliono almeno due giorni di lavoro e non meno di 18 ore di lievitazione naturale».

«Il tocco finale – conclude Riccardo – è in una sapiente cottura, per non far fare al “pan di Toni” la stessa fine del dolce preparato dal suo capocuoco. Nel caso di un panettone da 1kg, si consiglia un cottura di circa 50 minuti a 190°».

Non so a voi, ma a noi è già venuta l’acquolina in bocca. Mentre già abbiamo un’idea su come farcela passare, ci congediamo con le parole della grande e indimenticata Alda Merini:

«Io quest’anno ho spento le candele: tutti mi hanno invitato, ma quella notte non farò nulla di diverso, nulla che io non faccia sempre, proprio come quando ero bambina; al limite si cambiava stanza, si andava dalla camera al tinello per vedere se era arrivato Gesù, e per mangiare il panettone, che allora si chiamava “el pan de Toni”…».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...