Per i suoi 100 anni vissuti di abito della complessità

Odysseo,  come ogni giornale di natura culturale che naviga nelle acque incerte ed inesauribili della conoscenza, non poteva non dare spazio ad Edgar Morin proprio oggi 8 luglio, giorno in cui compie cento anni, anche perché alcune idee portanti del suo percorso sono state oggetto e spunto di riflessione in alcuni scritti da parte del nostro Mario Castellana.

Ma gli omaggi a Morin non si contano, insieme agli auguri e alle varie iniziative a livello internazionale: dall’Unesco allo stesso Papa Francesco che lo ha considerato “un’anima gemella”, dal presidente francese a varie istituzioni culturali del mondo intero. Alla sua poliedrica figura viene riconosciuto il merito di aver dato voce alle diverse inquietudini della nostra contemporaneità e di averne più di altri sottolineato la dimensione planetaria.

Per l’Italia si segnala una non comune iniziativa portata avanti da Mauro Ceruti che ha curato il volume  dal titolo Cento Edgar Morin. 100 firme italiane per i 100 anni dell’umanista planetario (Collana ‘La sfida della complessità’, Mimesis, Milano-Udine 2021), dove cento personalità del mondo culturale, politico ed altre appartenenti a vari organismi  manifestano il loro debito nei confronti di Morin; e tra questi nomi, oltre a quelli di Don Ciotti, di Davide Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, e di  Dario Nardella, sindaco di Firenze, solo per citarne alcuni, compare pure quello di Mario Castellana che ha permesso ai lettori di Odysseo di conoscerne la profondità e l’originalità di pensiero e nello stesso tempo di farcelo sentire un compagno di viaggio. In tal modo, sia pure indirettamente, Odysseo, ha potuto partecipare ad un significativo evento culturale anche perché convinti che nel navigare nelle acque della vita e del pensiero c’è bisogno di avere a disposizione più rotte; ed il pensiero di Morin ne può essere un’altra non meno significativa oltre a quella di Simone Weil che ci ha guidati in questi ultimi e difficili tempi.

I cento contributi italiani non si spiegano solo per gli interessi di ricerca che la maggior parte degli autori condivide col pensatore francese, ma anche perché, come sottolinea Mauro Ceruti nell’introduzione e come viene affermato in diverse sue opere di natura autobiografica, l’Italia è stata per lui “il mio primo desiderio, il primo luogo dove fare un viaggio” dopo il secondo conflitto mondiale e dopo aver  partecipato alla Resistenza col cambio di nome da Edgar David Nahoum in Edgar Morin, e “là dove vorrei vivere, amare e morire”; ma se l’Italia è stata “una matrice”, come ha dichiarato in una intervista apparsa su  Sette (Corriere della Sera, 02-07-2021) sempre a cura di Mauro Ceruti, è dovuto anche al fatto che i suoi avi di origine ebraica sefardita, fuggiti dalla Spagna, per molto tempo sono vissuti prima in Toscana per trasferirsi a Salonicco e poi in Francia.

Questa condizione di immigrato si è rivelata per Morin una vera e propria risorsa sia esistenziale che sul piano del pensiero, lo ha fatto sentire nomade tra le culture del Mediterraneo e “senza identità  nazionale” con la necessità di Pensare l’Europa  stessa, come recita un suo libro del 1987; non sarà un caso se in più occasioni si definirà  “cittadino del mondo”, “figlio della Terra-Patria”, titolo di un’altra sua importante opera del 1993, un “neomarrano”, insieme “figlio  di Montaigne e Spinoza”  con radici ebraiche ma “diluite nella mia formazione umanistica e universalista”.

Se Morin è approdato al pensiero complesso e a fare propria “la sfida della complessità” col farne un quotidiano abito, come suggerisce Ceruti nell’introduzione del volume Cento Edgar Morin, è perché ha saputo sfruttare sul piano teoretico questo meticciato di vita arricchendolo di diverse esperienze a partire dalla partecipazione alla Resistenza come quelle successive di regista, di poeta, di scienziato, di saggista, di metodologo, di epistemologo, di politologo e pedagogista, di grande lettore di opere letterarie a partire da quelle di Dostoevskij, opere che gli hanno permesso di confrontarsi con gli umiliati; ma da tutte queste esperienze. anche se a prima vista possono sembrare dispersive, è emerso un pensiero polifonico in grado di confrontarsi con le diverse vicende umane, lontano da ogni tipo di riduzionismo e fondamentalismo sino ad avere gli strumenti concettuali per stare sempre in una situazione non comune di autocritica: prima nei confronti dell’ideologia comunista e poi degli altri miti, come il mito tecnocratico ed il mito transumanista dell’uomo “aumentato”.

L’abitare sino in fondo le contraddizioni del reale e vivendole sulla propria pelle, per usare un’espressione di Simone Weil, ha fornito a Morin le chiavi ermeneutiche ed esistenziali per capire le dinamiche complesse della vita e della realtà umana, “fatta di ragione e di passione”; come ha ripetuto spesso: “Siamo  Homo sapiens/demens, oscilliamo  tra Eros e Thanatos, tra vita e morte sino a creare a volte le condizioni per l’autoannientamento”; e nello stesso tempo gli ha permesso di tenere sempre legati pensiero e azione e, come pensatore critico sulla scia di Pascal, ha sempre confidato nel potere della ragione di “vegliare sulla passione”, ma mettendo in evidenza che “la passione è il combustibile della ragione” stessa.

Non è dunque un caso che i cento italiani contributori  del volume in suo onore, pur appartenendo a discipline molto diverse tra di loro,  abbiano trovato nelle sue opere e, soprattutto nella coerenza tra vita e pensiero, le basi a volte per una riconversione dei loro percorsi, delle “forze rigeneratrici”, come le chiama Mauro Ceruti, sia a livello individuale che collettivo; e, pur di fronte al gramsciano pessimismo della ragione,  hanno trovato strumenti in grado di prendere atto della “crisi gigantesca nella quale si gioca il nostro destino” e anche se è molto probabile che l’umanità proceda verso ‘il peggio’, come Morin ripete spesso già da diverso tempo, non dobbiamo rinunciare all’idea che “l’improbabile e l’imprevedibile sono sempre possibili” in quanto come “umani siamo incompiuti” e votati “all’inesplorato, all’inedito”.

Questo spiega  il senso dell’impresa di Morin come “umanista planetario”, come suggerito da Mauro Ceruti, per darci continuamente strumenti indispensabili per coltivare “oasi” e “reti di solidarietà, di fraternità e di pensiero creativo” necessari per uscire insieme da “questa Età del ferro dell’Era planetaria”; non a caso  ha trovato  interlocutori privilegiati sia in ambienti laici che nel mondo dei credenti, a partire da Papa Francesco che nelle sue ultime encicliche  si è avvalso di molte sue idee: lo stesso pensatore francese ha sentito il bisogno di commentare la Laudato sì e di vedere in esse delle forze rigeneratrici per il futuro dell’umanità  come in  La fraternità, perché?, del 2020. A partire da   Il cammino della speranza e La Via. Per l’avvenire  dell’umanità del 2011, insieme con Insegnare a vivere del 2014,  i rispettivi percorsi si sono proficuamente incontrati sino a poter dire non solo che si sono rivelate  figure gemelle, ma anche che sono diventati due fari per le nuove rotte che l’umanità intera deve intraprendere.

Le cento firme italiane  da questo punto di vista ci offrono un quadro  di insieme delle diverse indicazioni forniteci da Morin nei diversi campi, comunque tutte incentrate  sulla necessità di un “nuovo umanesimo” per resistere insieme, come sottolinea Mauro Ceruti, contro le varie “forme di barbarie” sempre in agguato e diventate sempre più pericolose per la dimensione planetaria dei problemi che se non vengono affrontati adeguatamente creano crisi dagli effetti devastanti col fare sembrare “Thanatos il vincitore”.

Ma dove “l’orizzonte dell’umanesimo planetario”  rivela la sua indispensabilità è nel fornire  le chiavi per una riforma del pensiero e con essa la riconversione integrale delle nostre azioni, della “nostra vita” che può riacquistare “senso solo prendendo le parti di Eros”; in questo si rivela quanto mai proficuo il pensiero complesso, ottimo antidoto contro la frammentazione delle conoscenze e contro gli assolutismi ed i particolarismi in campo cognitivo,  col tradursi in ambito etico-antropologico in fraternità, ritenuta il destino comune dell’umanità, dove deve prendere piede la solidarietà con tutti gli esseri viventi.

Se il pensiero e la vita di Morin – come dice nella sua ultima opera autobiografica Lezioni di un secolo di vita (in corso di traduzione per Mimesis) –, caratterizzati dal tormentato rapporto con la morte, sono diventati punti di riferimento per una vasta platea di persone ed enti impegnati nei diversi ambiti dell’umano, è anche perché si è preso atto che viviamo sì in una società della comunicazione, ma ancora non diventata, come spesso viene affermato nei suoi numerosi scritti, “società della comprensione” dei bisogni dell’altro. Il suo “aver vissuto una vita” lo ha portato spesso a “cambiare strada”, come recita  il titolo di un’altra sua opera e, anche se tutto può sembrare correre verso il precipizio, nondimeno il suo percorso di spirito critico lo porta e ci porta a intravedere una nuova rotta dove molte “sorgenti e rivoli possono confluire in un unico grande fiume” quello appunto della fraternità,  come afferma in un’altra sua opera.

Cento Edgar Morin, pertanto, non ci offre solo un panorama dei luoghi dell’intelletto, a dirla con Kant, dove è penetrata la “sfida della complessità”, ma anche un luogo dove la ricerca della verità non è fine a sé stessa ma, come dicevano i Maestri Greci, è indirizzata all’amicizia, a scavare in profondità l’alveo di un grande fiume in cui la fraternità può trovare solide e nuove radici, come Simone Weil ci ha indicato nel suo ultimo scritto L’enracinement, che diremmo quasi, ante litteram, di ispirazione moriniana.


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...