La felicità arriva soltanto quando spingiamo le nostre menti e i nostri cuori ai limiti estremi, perché aver vissuto comporti qualche differenza

Poco tempo fa ho iniziato a fare un esperimento: eliminare il verbo sperare, e le sue declinazioni, dal mio lessico. No, non sto scherzando, e sì, ne ho parlato con la psicologa.

Omettere il verbo sperare dal parlato e, prima ancora, dal modo di pensare è più difficile di quanto si possa pensare. Presuppone, di base, una presa di responsabilità: tutto quello che accade, nel bene e nel male, dipende da me. Oltre a questo, implica l’eliminazione di quella dose paranoica di lamentele tattiche, usate all’occorrenza come scusa per giustificare, talvolta in via preventiva, un qualsivoglia accadimento.
In sintesi: se spero che accada qualcosa, vuol dire che non me ne sto assumendo la responsabilità totale, poiché ritengo che il suo verificarsi sia subordinato a cause esterne alla mia volontà. E se poi quel qualcosa non accade, come dicono gli inglesi, “mi sono parato il culo” e potrò autoassolvermi invocando a seconda la sfortuna, il destino o chissà che.

Ora, dopo questa doverosa premessa, immaginate la mia gioia nel prendere parte lo scorso fine settimana al “Festival della Disperazione“.
Tre giorni di monologhi, racconti, poesie, persino escursioni con un unico filo conduttore, letteralmente: l’assenza di speranza. O forse, no. O almeno, non proprio.
Non potendo recensire i singoli spettacoli per colpevole mancanza di capacità di sintesi, mi limito a citare quelle che a mio personalissimo parere sono state stimolanti scoperte (Vanessa Roghi e Davide Enia su tutti), piacevoli conferme (Stefano Benni e Franco Arminio) e aspettative deluse (Erri De Luca).

A margine delle tre serate (che già ad arrivarci, a margine, senza cedere prima, non era mica scontato) ho avvertito immediatamente la necessità di ordinare gli stimoli ricevuti e fare sintesi.
Cioè, non proprio immediatamente . L’unico stimolo a cui ho voluto dare immediata risposta è stato quello della fame, seguito a ruota dal bisogno di una birra fresca. Poi però, dopo aver ristabilito i valori di carboidrati e liquidi nel mio organismo, ci ho provato sul serio.

Cos’è la Speranza?
Lungi da me sostituirmi a secoli di trattati filosofici in materia. Quello che credo, parte dall’osservazione della realtà e la realtà mi porta a distinguere tra due tipi di speranza, o meglio due modalità di intendere la speranza che gli uomini applicano.
La speranza come attesa. Spero che le cose vadano bene, ma ritengo che la loro effettiva buona riuscita non dipenda da un mio atto di volontà, quanto piuttosto da un fattore esterno, che sia la benevolenza di un’entità superiore onnisciente, o più banalmente la fortuna.
La speranza come atteggiamento attivo e propositivo. Spero che le cose vadano bene, e ci credo così fortemente da indirizzare la mia determinazione per modificare gli effetti agendo direttamente sulle cause.

La disperazione è il contrario della speranza?
Sì e no.
Sì, etimologicamente. Disperare nasce semplicemente dall’aggiunta del suffisso -de (in latino) al verbo sperare, per darne un significato negativo.
No, nella sostanza: e proprio in ragione del significato etimologico della parola speranza, che si ricollega al latino “spes”, che a sua volta deriva dalla radice sanscrita spa- che significa “tendere verso una meta”. Chi dispera, non necessariamente smette di tendere verso la direzione desiderata. Per chi intende attivamente la speranza, la disperazione non rappresenta la necessaria mancanza di quest’ultima. È come se il prefisso “de” si slegasse eccezionalmente dalla sua funzione di negazione ed assumesse quella di intensificare, accrescere. Così, la speranza di chi dispera non solo non cessa di esistere, ma si rafforza, raddoppia nel tentativo estremo di non cedere alla rassegnazione.
Chi si dispera non smette di “tendere verso la meta”. Si strappa le vesti, urla, rompe gli schemi, ma resta pur sempre animato da una forza dinamica, che è viva, che pulsa di passione e non cede all’apatia. Quella sì, irreversibile.

“E se c’è un limite lo posso spostare. Più qua, più su”.

C’è forza nella disperazione. L’angoscia e l’istinto di conservazione fanno scaturire dal nostro
intimo delle risorse inaspettate, delle riserve eccezionali di energie, anche ai limiti del sovrumano.
E c’è coraggio nella disperazione. La convinzione di dover massimizzare gli sforzi pur di non soccombere, alimenta il coraggio (da cor, cuore), il prestare l’ampiezza del petto all’incerto, al pericolo, al dolore senza cedere alla paura.
Così come la disperazione dialoga con la speranza, non la nega, il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto il giudizio che c’è qualcosa di più importante della paura. È la volontà di non farsi schiacciare dalla paura (che condivide la stessa radice di pavimento e rimanda all’idea di sentirsi schiacciato, battuto) ma di farsela amica,  di farne esperienza, prenderla per mano e poi lasciarla andare. È l’intervento umano che supera l’istinto, motore responsabile che intimorito non cede al timore perché qualcosa di giusto lo chiede. Da dentro di lui.

Giunto al termine della mia riflessione, mi farebbe parecchio comodo concludere come Erri de Luca, invocando la necessità di farmi desiderare e, di fatto, fermarmi qui. Dato che, però, non sono Erri de luca, e che, quantomeno, mi spetta portare rispetto per quei pochi che oseranno leggere fino qui, mi tocca.
Il punto, in definitiva, non è capire se sia preferibile condurre un’esistenza votata alla speranza o alla disperazione. Il fatto stesso di porle come esperienze opposte, si basa su errore di fondo che vede nella Speranza l’attesa che qualcuno o qualcosa possa intercedere a nostro favore e nella disperazione la negazione che ciò possa accadere.
Se la Speranza diventa invece atto di determinazione, la disperazione ne estremizza l’intensità senza mutare il fine ultimo.
Ciò che conta è “succhiare la vita fino al midollo” . Disperando, se serve, e senza smettere di sperare. La felicità arriva soltanto quando spingiamo le nostre menti e i nostri cuori ai limiti estremi delle nostre capacità, perché lo scopo dell’esistenza è far sì che il fatto di aver vissuto comporti qualche differenza.

Perché, come ha letto Stefano Benni: “L’ora più bella della nostra vita è quella che non riusciamo a trovare, nel nostro passato come nel presente o nel futuro. Ci sfugge, ci costringe a inseguirla per poi subito metterla in dubbio. Eppure tutti noi dobbiamo almeno raccontarci di averne una, per poterla raccontare. Chissà, magari è stata l’ora in cui ci siamo presi, con la disobbedienza, il diritto alla felicità”.