
I lavoratori non sono merci. L’Italia muore se non si proteggono i lavoratori
Le chiamano “morti bianche”, come se l’assenza di sangue potesse sbiadire la tragedia. Ma dietro ogni casco lasciato a terra, ogni tuta da lavoro abbandonata, c’è una vita spezzata, una famiglia distrutta, una comunità ferita. Non è fatalità, non è sfortuna. È responsabilità. Ed è omissione.
La legge 626 del 1994 – poi confluita nel Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 81/2008, ex legge 80 con successive modifiche) – avrebbe dovuto essere il fondamento della prevenzione nei luoghi di lavoro. Parole chiare, principi condivisibili: valutazione dei rischi, formazione, ergonomia, dispositivi di protezione individuale, sorveglianza sanitaria. Ma a distanza di decenni, continuiamo a contare i morti. Ogni giorno. Le norme esistono, ma sono lettera morta se non c’è volontà di applicarle. Il sistema è pavido. Incapace di affrontare in modo deciso un fenomeno che conosce, ma che continua a sopportare in nome della produttività, del profitto, della “necessità”. Una necessità velenosa, che ogni anno uccide centinaia di lavoratori in Italia. Non si tratta solo di rafforzare i controlli – pur necessari e troppo spesso assenti. Si tratta di cambiare cultura, visione, postura esistenziale. Basta considerare i lavoratori come strumenti, numeri, ingranaggi sostituibili. Il lavoro non è un mezzo per morire: è un diritto di vivere in dignità.
Non amo gli slogan ma “La responsabilità è di tutti”. Non possiamo delegare tutto a leggi e ispettori. Ogni cittadino ha il dovere di parlare, denunciare, pretendere sicurezza. Di esigere ambienti lavorativi ergonomici, formazione vera, cultura della prevenzione, educazione all’uso dei DPI non come fastidio ma come salvezza. Perché dove non arriva la legge, dovrebbe arrivare l’etica. Tutti dobbiamo imparare a riconoscere la violenza silenziosa che si annida nella normalità: nell’abitudine a rischiare, nel silenzio delle omissioni, nell’accettazione passiva dell’inaccettabile.
Davanti a questa catena di infortuni gravissimi e spesso mortali ho scelto di digiunare. Non per apparire, ma per restare. Non per cambiare il mondo, ma per cambiare sguardo. Digiunare è un modo per fermarsi, rallentare, ascoltare. È una protesta silenziosa che fa rumore dentro. È un impegno fisico, emotivo, spirituale. È ricordarsi, con il corpo, che ogni giorno c’è chi si alza per lavorare e non torna. È un gesto che interroga: cosa sono disposto a perdere per sentirmi più vicino a chi ha perso tutto? Il digiuno non serve “a niente”, se lo misuriamo con i parametri della produttività. Ma serve moltissimo a chi lo pratica: per ricordare, per non lasciar passare oltre, per mettere dentro il corpo una tacca, una memoria che non si cancella. È un legame. Un patto.
Digiuno perché non voglio più accettare che la morte sul lavoro sia routine.
Digiuno perché non posso rassegnarmi al cinismo della rimozione.
Digiuno per costringermi – e forse costringere anche altri – a non voltarsi più dall’altra parte.
Non bastano promesse, convegni, bandi. Serve un piano straordinario nazionale: investimenti massicci in ispezioni, in educazione alla sicurezza già dalle scuole, in cultura del rispetto umano. Serve responsabilità penale vera per chi omette, taglia, sfrutta. Serve dire basta all’impunità delle omissioni di soccorso, al silenzio colpevole, alla leggerezza assassina. Servono scelte rischiose, impopolari, forti. Ma necessarie. Se non proteggiamo i lavoratori, l’Italia muore. Muore nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi. Ma muore anche nell’anima, nel suo stesso fondamento sociale.
Non dimentichiamolo mai: ogni morte sul lavoro è un fallimento collettivo. Ogni incidente evitabile è una ferita aperta nella carne del Paese. Non possiamo restare neutrali. Non possiamo restare a stomaco pieno. Sono volti non sono numeri!
È proprio l’indifferenza, l’ anestetizzante indifferenza difronte a tutto ciò di terribile che ci sta accadendo attorno che dobbiamo interrogare. La scelta del digiuno può essere un passo per risvegliare la nostra empatia verso le sofferenza altrui. E si spera che possa anche rafforzare e restituire a noi tutti e tutte la responsabilità e il nostro diritto a non essere i nuovi consenzienti schiavi del loro profitto.
Grazie Yulia per questa riflessione.
Mi trovo a riflettere profondamente sulle parole di Landini e di Gino Strada, che con forza e determinazione hanno sempre denunciato le ingiustizie e l’indifferenza che spesso permeano la nostra società. Le loro voci sono diventate un faro per chi, come me, crede che il cambiamento non può essere solo una speranza, ma una lotta quotidiana per la giustizia.
Le morti bianche, gli infortuni sul lavoro, sono il frutto amaro di un sistema che ha scelto di trattare il lavoro come una merce, riducendo il valore della vita umana a un costo. Gino Strada ci ha insegnato che la medicina non è solo cura, ma anche una lotta contro la sofferenza che non dovrebbe esistere. Lui e Landini hanno sempre sottolineato l’importanza di non essere spettatori passivi, di non permettere che l’indifferenza diventi la norma. Le loro parole sono la testimonianza di un impegno a risvegliare le coscienze e a trasformare il nostro modo di pensare.
Protestare non è mai solo un atto di ribellione, ma un dovere morale. Dobbiamo ricordare che ogni vita umana ha un valore incommensurabile, e ogni lavoratore ha il diritto di lavorare in un ambiente sicuro, rispettoso, dove la sua dignità non venga mai messa in discussione. Non possiamo permettere che la logica del profitto continui a calpestare i diritti fondamentali di chi ogni giorno si alza per costruire il futuro, spesso pagando il prezzo più alto.
Il digiuno, la protesta, l’azione collettiva, sono strumenti potenti per risvegliare l’empatia che sembra essere scomparsa in un mondo che troppo spesso si piega al consumismo. Ma, come diceva Gino Strada, “Non possiamo fare finta di non vedere”, e quindi dobbiamo unirci per fermare questo processo di disumanizzazione. Ogni passo che facciamo verso la giustizia è un passo che ci rende più forti, più consapevoli, e più vicini alla nostra responsabilità verso l’altro.
Non siamo merci, non siamo ingranaggi. Siamo esseri umani con i nostri diritti, con il nostro bisogno di sicurezza, di dignità, di vita. E non dobbiamo mai smettere di lottare per ciò che ci spetta.