«Amare il prossimo, certo; ma anche il sole, come lo si ama? − là dov’è. Immaginate se si mettesse ad avvicinarsi»
(Pierre Reverdy)
Noi asociali salveremo il mondo. Quando l’ho letto non ho potuto non ridere: dacché è iniziato questo strano ed estraneo pandemonio, me lo hanno detto più volte con una foto in bianco e nero, una donna munita di occhiali da sole e mascherina nera, le regole della quarantena ed un commento memorabile: da oggi siamo tutti Acca.
Ebbene sì, chi mi conosce lo sa. Sono asociale, eppure vivo nel mondo ed è fondamentalmente per questo che il mio ‘eremitismo’ non ha potuto far altro che ingigantirsi nel tempo.
Allontanarsi dalle cose mondane sarebbe stato facile, avrei perso ogni caratteristica di misantropia, mi sarei in qualche modo salvata. Invece no, ostinatamente legata alla vita, non ho mai smesso di stare in qualche modo per strada, nutrendo in silenzio la mia ritrosia per il genere umano che, nonostante tutto, mi ha sempre ritenuta affabile, disponibile, gioviale. E lo sono: quando si tratta di scendere in campo mi trasformo in una specie di onesto ibrido. Non ho falsi slanci, ma qualcuno leggendo starà pensando: perché, hai pure slanci? E da quando? A te solo il Nord mancava per farti più orso di quanto già non fossi.
Ultimamente qualcun altro aveva addirittura notato i miei auricolari e mi aveva esortata a non ascoltare troppa musica: devi socializzare!, mi aveva detto. Ed oggi che ci ripenso, potendo, risponderei con un dedicatissimo acronimo in pieno stile barese, che spiegherebbe con la brevitas le mie ragioni. Non posso riportarlo qui, però, diventerei scostumata.
Mah! Vabè, vi spiego la vita di un asociale, che ho scoperto solo ora poter descrivere. Di fatto è una quarantena, o meglio una restrizione scelta. Si ama la compagnia di sé stessi, ci si rilassa davvero con pochissime persone, le stesse che normalmente mai rompono le scatole e che se stanno lì è per un motivo, primo tra tutti la capacità di capire quando è meglio non esserci; si sta bene sul serio lasciando il mondo a distanza, appena la vita lo concede. Uscire solo per fare la spesa quando è strettamente necessario, parrebbe essere il sogno di qualsiasi asociale.
Ecco perché i meme di questi giorni sembravano davvero avere ragione: una come me, obiettivamente, non fa nessuna fatica dal punto di vista pratico ad adeguarsi alle regola della zona protetta: in realtà non deve fare niente di diverso dal solito, anzi ci guadagna, perché non è costretta a relazionarsi con il mondo e quest’ultimo è il primo a scansare le relazioni.
Poi però arriva quello schiacciante senso di obbligo. Vivere in un certo modo non è più una scelta, ma la deriva di un’epidemia ne fa imposizione. No, non pesa di fatto, tocca dirlo onestamente, pesa di botto. Sono asociale, è vero, ma l’idea del divieto di certi abbracci, fossero anche gli unici che avrei riservato fino a poco prima del dictat, in alcuni momenti della mia fitta giornata mi toglie quasi il respiro.
Del resto, il regalo che gli asociali fanno a sé stessi è proprio il setaccio, che nel momento del Covid-19 mostra ancora di più la sua importanza: se alcune braccia rientrano nel ristrettissimo perimetro di un’Acca, il divieto necessario del Governo, fa sentire tutto il suo peso emotivo.
Eppure, come ho letto chissà dove, ho sempre lasciato che mi ritenessero strana o temibile per questo modo di allontanarmi, che confondessero il mio essere selettiva con l’alterigia e la supponenza; d’altro canto, dacché ho memoria, ho preferito la compagnia del lupo a quella delle pecora, salvando quella nera, senza mai farmi troppa pubblicità per questo.
Ma ora? Ora che paradossalmente vivo una panacea dal punto di vista gestionale, ora che nessuno può recriminare niente rispetto ad un certo modo di essere, tanto risponde ai dettami della legge, ora?
L’eterna insoddisfazione umana? Non credo. C’è qualcosa di rotto, incrinato.
Da un lato il mondo che si rivela per quello che è, o meglio mi vomita addosso ogni minuto di questi giorni che non hanno più un numero, le ragioni per le quali cercavo di starne in qualche modo distante. Il totale fallimento educativo di molto più di una generazione. Solitudine V.1.
Dall’altro l’eterno bisogno di poter scegliere un abbraccio e l’assoluta necessità di poter decidere liberamente se, come e quando andare dal lupo, prendergli la zampa senza mantenere distanze e stringerlo, fino a passare dall’altro lato. Solitudine V.2.
Quindi, ora? Ora Bukowski:
Il cuore che ride
La tua vita è la tua vita.
Non lasciare che le batoste la sbattano nella cantina dell’arrendevolezza.
Stai in guardia.
Ci sono delle uscite.
Da qualche parte c’è luce.
Forse non sarà una gran luce ma la vince sulle tenebre.
Stai in guardia.
Gli dei ti offriranno delle occasioni.
Riconoscile, afferrale.
Non puoi sconfiggere la morte ma puoi sconfiggere la morte in vita, qualche volta.
E più impari a farlo di frequente, più luce ci sarà.
La tua vita è la tua vita.
Sappilo finché ce l’hai.
Tu sei meraviglioso gli dei aspettano di compiacersi in te.
(9 marzo 1994, San Pedro Peninsula Hospital)
E fu così che guardai fuori dalla finestra, osservai uno splendido panorama alpino in una giornata di sole che faceva risplendere più del solito il bianco delle punte dei ghiacciai e ricordai quanto fosse potente la mente: passai in un momento alla savana, dove vidi il regnante leone, accompagnato dalla regnante leonessa. Con quel loro incomprensibile equilibrio, si tenevano l’un l’altro e guidavano l’intera schiera degli altri animali: sentii, allora, che stavo sconfiggendo la morte in vita e pregai perché quella sensazione mi accompagnasse, almeno fino a nuovo ordine.