Benedicendo la pioggia che lava

Mercoledì scorso ho chiesto a qualche studente come stesse, aspettandomi una risposta positiva data l’imminente fine dell’anno scolastico. E invece il malumore dilagava. Perché? «La pioggia mette tristezza». Io invece ero felice avesse piovuto, perché la prima ondata di caldo è stata impegnativa e a tratti soffocante. Così adesso, mentre scrivo, mi godo il fresco che si innalza dalla vegetazione bagnata dall’ennesimo temporale notturno, con i suoi silenzi e i suoi profumi. Anche perché so bene che si tratta solo di una pausa da questo rovente, prematuro inizio d’estate.

Così, quel giorno a scuola abbiamo parlato del temporale, di che significato potesse avere, dalla parola al fenomeno. E sul finire di un anno scolastico impegnativo ci siamo ritrovati a condividere cuori simili e sensazioni comuni.

In realtà il termine rimanda immediatamente a qualcosa di temporaneo, di passeggero, tanto provvisorio quanto violento. Assomiglia a una reazione di rabbia, a un’esplosione improvvisa, come suggeriscono i lampi e i tuoni che lo accompagnano. “Temporale” si dice anche, in un linguaggio un po’ arcaico e spiritualeggiante, di un potere terreno, di beni sottoposti alla fugacità del tempo, opposti alle cose durevoli ed eterne. Eppure, quel giorno non ci siamo soffermati su questa accezione.

Abbiamo parlato della pioggia, del pluvere che porta in sé l’idea di scorrere, fluttuare, nuotare e galleggiare, dalla radice indoeuropea plav– o plu-. Abbiamo condiviso la necessità di imparare a lasciar andare le cose che non servono, di galleggiare sulle parole inutili, di imparare a nuotare nelle cattive acque delle mancanze, delle pretese, delle manipolazioni, delle autogiustificazioni, delle menzogne di chi è più instabile e inaffidabile di uno stesso temporale. Dove c’è acqua, poi, c’è di mezzo lo “scivolare”, un verbo instabile, contrario all’equilibrio, opposto al controllo che rincorriamo ogni giorno di cose, persone, attimi, della vita insomma. Eppure, scivolare a volte è salvifico, perché lo si può fare senza farsi male, con armonia e dolcezza, come se alla marcia frenetica del quotidiano si preferisse improvvisamente una danza scoordinata e divertente.

E farsi scivolare è ancora più importante: farsi lavare da un’improvvisa, imprevista, fresca pioggia di leggerezza; farsi pulire da incommensurabile meschinità, dietro le quali si perdono le migliori energie; farsi purificare dall’inutile sforzo di cambiare ciò che non può essere cambiato, di aiutare chi non vuole essere aiutato, di comprendere enigmi sfiancanti. Mollare la presa da responsabilità di cui ci siamo inutilmente caricati. Sperimentare il cambio di programma, l’improvviso, l’inaspettato. E cogliere le tracce di eternità nel profumo dell’erba bagnata e nelle pozzanghere che brillano al tramonto di un sole rinnovato. Perché, forse, ciò che è temporaneo ci insegna a non inquadrare l’eterno nella durevolezza e nell’ufficialità delle perfezioni, ma come possibilità dischiusa anche in una piccola goccia di pioggia non prevista.

Occorre, di tanto in tanto, prendersi una pausa e benedire la pioggia che interrompe le ondate, di caldo e di sciocchezze, scambiate per oro colato solo perché brillano alla luce del sole. «Io non ho ancora imparato a farmi scivolare tutto addosso. Ma meglio ruvida che viscida», diceva la grande Anna Magnani. Ed aveva ragione: difatti, non si tratta di diventare superficiali o incapaci di farsi scalfire. Solo di capire quando è il momento di fermare ciò che sta andando troppo in profondità senza meritarlo. Non tutto merita di restarci sulla pelle, di lasciarci un segno nella carne. E il temporale sa bene cosa spazzare via.

Quello che deve restare, resta. In una freschezza che fa bene, che dà la carica per le nuove ondate. Perché di certo non possiamo evitare né le calure che seccano e bruciano, né gli sbalzi di temperatura e di umore, né l’instabilità del tempo e delle persone. Ma possiamo imparare a cavarcela in ogni tempus. E a fare di un temporale una poesia per la vita.