«Cadendo, la goccia scava la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza»

(Tito Lucrezio Caro)

Muri su muri. Muri dentro e muri fuori.

Una panoramica del muro di separazione a Gerusalemme Est 
(foto: Angelo Zingaro)

Muri fuori. Di varia forma e consistenza: muri di cemento armato e rete elettrificata, più di 800km in totale (ma la Green Line, che dovrebbe segnare il confine tra Palestina ed Israele è lunga meno della metà: ci sarebbe da chiedersi perché il Muro sia lungo più del doppio…), muri che invadono le case e i monasteri, tanto da inglobarli e renderli luogo di separazione invece che accoglienza, muri di colonie che l’ONU dichiara illegittime, ma continua a tollerare, mercé il veto degli Stati Uniti, muri fatti di checkpoint e bypass road, di targhe di tutti i colori (gialle per gli Israeliani, verdi coi numeri bianchi per i mezzi pubblici nella West Bank, bianche coi numeri verdi per i civili palestinesi della stessa West Bank: le prime possono andare dappertutto, le seconde solo nelle province palestinesi, le terze …quasi da nessuna parte).

E poi, soprattutto, muri dentro. Dentro la testa di chi non vede altro che nemici. Dentro un’opinione pubblica asservita e manipolata. Dentro i cuori di chi si volta dall’altra parte. Dentro i pregiudizi di chi vuol venire in Terrasanta ma “solo per vedere i luoghi della cristianità”.

E non sa che sono proprio i cristiani di Terrasanta i primi a protestare, loro, l’unico ponte possibile tra Ebrei e Musulmani, tra chi predica “mai più Auschwitz” e continua a perpetrarla, e chi conosce la “guerra santa”, gli uni e gli altri sprovvisti del concetto di misericordia …la stessa che ai cristiani è stata rivelata, così dice il loro Vangelo, e di cui non sempre sono stati testimoni credibili.

Tutt’altro.

Pregando il rosario sotto il muro di separazione a Betlemme 
(foto: Riccardo Recchia)

Ecco, ai “pellegrini diversi” che ho avuto la fortuna e la responsabilità di accompagnare in questi giorni, tra Palestina e Israele, ho provato in tutti i modi a spiegare cosa significhi “de-vertere”: volgere la testa e il cuore nella direzione in cui la maggior parte non vuol guardare, farsi voce di chi non ha voce, accettare di correre il rischio di sentirsi tacciati di antisemitismo per il sol fatto di dire che l’occupazione, la quale dura da cinquantacinque anni in Palestina, semplicemente non è giusta.

Il muro a Gerusalemme est ingabbia anche le case e divide famiglia da 
famiglia 
(foto: Paolo Farina)

Caro lettore, adorata lettrice,

ti chiedo perdono per questo fiume di parole. In realtà, desidero solo dirti che il mio cuore gronda compassione ed è compassione che cerco in te che leggi. Per le analisi geopolitiche c’è tempo. Meglio se fatte con documenti alla mano ed esperienze sul campo. I pregiudizi non fanno testo, anche se sono quelli che più spesso sento ripetere. E il mio cuore si spacca.

D’altro canto, molti si nascondono dietro un ma che ci posso fare io? Le ingiustizie c’erano, ci sono e continueranno ad esserci.

Si tratta di un alibi che non regge, di motivazioni pretestuose. Basterebbe non restare indifferenti, informarsi e informare. Abbiamo in questo senso un potere grandissimo, come ci ha ricordato ieri Abu Hamis, il capo villaggio di Khan al-Ahmar, un insediamento di beduini Jahalin, nomadi nella West Bank, la cui scuola, realizzata da Vento di Terra, una ONG italiana, è stata oggetto, negli ultimi anni, di cinque assalti da parte delle ruspe dell’esercito israeliano, eppure è ancora lì, grazie alla mobilitazione della opinione pubblica internazionale.

All'ingresso nella scuola di Khan al-Ahmar 
(foto: Paolo Farina)

A guidarci nella visita di Khan al-Ahmar c’era Jeremy Milgrom: un ebreo e cittadino statunitense, emigrato in Israele con la sua famiglia nel 1968, quando era solo un adolescente, all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, che segna l’inizio dell’occupazione militare della Palestina da parte dell’esercito israeliano.

Un’occupazione che dura sino ad oggi.

Jeremy è oggi un cittadino israeliano ed è un rabbino, nondimeno si batte per i diritti umani dei Jahalin, che sono beduini palestinesi, profughi sulla loro stessa a terra.

 Una bimba di Khan al-Ahmar 
 (foto: Paolo Farina)

A lui ho posto la domanda che da quindici anni a questa parte faccio a tutti i testimoni di eccezione nei miei viaggi in Palestina: «Rabbi, meglio due popoli in due Stati o due popoli in uno Stato solo?».

Traduco di seguito la sua risposta che è la migliore che mi sia mai stata data: «Io non credo che ci siano molte chances per una soluzione con due Stati. C’è già un solo Stato – Israele – che occupa la Palestina. Potrebbe anche essere chiamato l’impero di Israele che si estende sui Territori Palestinesi occupati con la forza. Ovviamente questo Stato unico non è democratico. Il mio sogno è quello di uno Stato bi-nazionale e democratico».

Al centro, con il cappello da cowboy, Rabbi Jeremy; alle sue spalle la 
scuola di Khan al-Ahmar 
(foto: Paolo Farina)

Quanto alle ingiustizie che “non” possiamo cambiare, tutti noi sappiamo bene che non è una ragione sufficiente per girar la testa dall’altra parte. Il Buon Samaritano era considerato un impuro e un eretico, eppure fu il solo che “vide ed ebbe compassione “. Ed è la compassione che ci spinge, ci costringe a fare ciò che non si può fare a meno di fare, a prescindere dal fatto che ciò che poniamo in atto abbia o meno una ricaduta in termine di utilità. E tuttavia: è sempre utile ciò che si fa spinti da autentica compassione e sete di giustizia.

 Un bimbo che dà il pasto alle sue pecore a Khan al-Ahmar 
 (foto: Paolo Farina)

Io in Palestina dormo in casa dei cristiani palestinesi, sono amico di rabbini e di donne ebree sia osservanti che laiche e di sinistra: e sono esattamente loro che mi chiedono da sempre di essere voce di chi non ha voce.

Infine, a proposito dei “luoghi santi”, vi confesso ciò che spesso ripeto ai miei “pellegrini diversi”: sono un ottimo posto in cui rischiare di perdere la fede.

Oppure ritrovarla, nonostante tutto, proprio come accadde ai discepoli di Emmaus.

Ma su questo, chissà, magari mi sentirete un’altra volta.

Per ora, Goethe: «Puoi costruire qualcosa di bello anche con le pietre che trovi sul tuo cammino».

Meglio se con i fiori.

Lanciamo fiori, non bombe 
(foto: Paolo Farina)