La mia speranza è di essere talea di quella grande donna che con tanta trasparenza e semplicità mi ha insegnato la complessità della vita e delle cose
Mia nonna amava i fiori e le piante. Il suo amore era ai confini con la passione legame antico con la terra che per generazioni aveva permesso alla sua famiglia di sopravvivere. Entrando in casa della nonna e sul suo terrazzo sembrava di essere in un giardino.
Il rumore caotico della città, la dolce brezza del mare, il profumo del vicino panificio si mescolavano al balsamo dei fiori e al fresco delle foglie. E piante di ogni tipo, in ogni angolo rifiorivano senza tempo. Alcune, ricordo piccole, crescere insieme a me, cercare spazio oltre il soffitto, intrecciandosi alle piante vicine, spingendosi verso la luce. La nonna era riuscita a ricreare un prato in una casa, un angolo di natura, un paese fertile.
La mattina si alzava presto, prima che il caldo afoso rallentasse i movimenti, per abbeverare le sue piante le amava. Capiva il luogo giusto per ognuna, sapeva farle riprodurre e le curava con dedizione quando si ammalavano. Era orgogliosa delle sue creature come fossero figli.
Il nonno a volte era colto da una incontrollabile gelosia, afferrava alcuni vasi a caso e portava ai bidoni delle immondizie le malcapitate, affermando che la nonna voleva più bene alle piante che a lui. In questo momenti si creavano scompiglio e tristezza, poi, però, una volta recuperate le povere piante sfrattate, tutto ritornava alla normalità.
La nonna considerava le piante un bene comune, universale. Un giorno prese una clivia da una serra per regalarla a me. Non le sembrò di averla rubata, no Ea lì, era di tutti, poi la serra era piena di clivie e nessuno se ne sarebbe accorto. Da quando la nonna è morta quella clivia non ha più fiorito.
Mio zio da un viaggio in Africa riuscì a infilare nel suo zaino carico una piccola pianta di cactus. Da ogni viaggio tutti le portavano piante strane da posti lontani o lei stessa nelle sue vacanze raccoglieva talee di piange mai viste per poi riuscire a farle crescere nel suo giardino. Il suo era diventato un piccolo angolo del mondo.
Poco prima di morire mi mandò in treno un ficus. Lei abitava al mare, a molti chilometri di distanza chilometri distante da dove abito io. Caricò il ficus cresciuto e intrecciato pensando a me sul treno, affidandolo Ad un conoscente. Io andai a prenderlo alla stazione, quando il treno arrivò.
Era come se avesse mandato una persona. Attendevo l’arrivo del treno, immaginando il viaggio che aveva fatto il ficus, la sete che aveva provato, la confusione la sensazione di essere spaesato.
Recuperato il ficus lo portai a casa mia ed è ancora lì, è lì da sempre. Sento l’amore della nonna quando lo guardo, non solo nei miei confronti ma nei confronti dell’intero universo, della natura. Mi parla della fiducia degli altri delle passioni che diventano poesia e vita.
Il tronco contorto, intrecciato da quelle mani stanche, vecchie con le unghie nere della terra, mi riporta alla concretezza delle cose, alla perfezione nell’imperfezione. Ogni nuovo germoglio è un sorriso della nonna, che mi torna in mente, sorriso abbellito da quelle sue fossette sulle guance, unico suo vanto.
La mia speranza è di essere talea di quella grande donna che con tanta trasparenza e semplicità mi ha insegnato la complessità della vita e delle cose.
Angela Maraner