Ho visto “Sulla mia pelle”. Un film di Alessio Cremonini, sulla pelle di Stefano Cucchi. Racconta di una delle vicende di cronaca nera più “nere” d’Italia.
I fatti sono ancora in corso di giudizio. C’è stata una prima inchiesta, conclusasi con un poco convincente “il fatto non sussiste”. C’è, ancora in corso, un’inchiesta-bis, di cui l’ultimo atto è il rinvio a giudizio di 3 carabinieri per omicidio preterintenzionale e altri due per calunnia e falso in atto pubblico.
Cremonini sceglie Alessandro Borghi per attraversare Stefano e raccontarcelo. Crudamente. Così com’era. Così com’è per chi, come Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo, lotta ancora oggi per ottenere briciole di verità. Stefano non era un santo, chi di noi può dire di esserlo. Stefano era un uomo e, proprio l’umanità, gli è stata negata.
Non è un film che alza sul podio i buoni e punta il dito contro i cattivi. È un film che porta a riflettere. Perché poco si è riflettuto prima. Perché dietro i 172 decessi in carcere nel solo 2009 si faccia chiarezza. Più che chiari e inequivocabili sono i segni del pestaggio. Gli occhi contusi, lividi, ammaccati. La schiena massacrata. È un film che veste il silenzio di omertà: un’ombra che si fa sempre più grande sino a stringersi, soffocante, attorno all’inerme corpicino del geometra. 37 kg su di una fredda lastra di marmo.
Cucchi si droga. Ma quello che fa angosciare prima, e infuriare poi, è che venga trattato come “solo un drogato”. Picchiato e lasciato come il solo spettatore della sua fine, è morto. Prima ancora dell’ultimo respiro agonizzante, prima dell’ultimo battito di ciglia. È morto prima e muore ancora oggi nella totale incapacità delle istituzioni democratiche di accollarsi le proprie responsabilità, più attente a difendere se stesse che i diritti di quelli che governano. Si innesta così un pericoloso gioco tra guardie e delinquenti. Anche chi, come Cucchi, non è un omicida seriale, quelle botte, ancora in un fottuto maledetto silenzio, se le prende e decide di non denunciarle per paura che “sulle carte me mettono 10 anni”.
Stefano si spegne. Progressivamente. Dal momento della cattura a quello del pestaggio. Dal momento del processo per direttissima, in cui gli viene imposto un avvocato d’ufficio e negato il diritto al suo legale di fiducia, a quello in cui i medici pensano sia più facile credere alla balla più gigantesca della caduta per le scale. Una piccola voce, la notte del calvario, quella che precede la morte, rende Stefano più visibile: Marco, un uomo qualunque, gli parla dalla cella affianco. Qualche parola, l’unico regalo d’umanità che riscalda il cuore di Stefano prima che cali il sipario.
L’amore per Cucchi lo lasciamo ai suoi familiari. A noi, però, resta la totale ripugnanza per chi lo ha picchiato. Per chi abbia incrociato il suo sguardo spento e non abbia fatto cura di provare a riaccenderlo. Per chi si è accontentato del suo silenzio e non gli abbia mai fatto domande.
Il geometra di Roma muore dopo un’agonia durata sette giorni. Alla sorella, al papà e alla mamma, ai quali era stato fermamente negato di vederlo da vivo, è “concesso” di guardalo da morto. L’ultima scena dà libero sfogo alle lacrime. Un pianto che deve diventare lotta. Per dare un significato alla verità. Alla vita. Prima che sia troppo tardi.
Non saprei come valutare, ma prima ancora, considerare i fatti della vicenda.
Ho fatto una certa esperienza “sotto” giustizia e “guardie” che ti chiudono la porta alle spalle (non intendo il carcere). Uno di loro mi disse: “noi vediamo nero come la divisa che indossiamo”.
Si riferiva al fatto che “le guardie” ne vedono d’ogni schifezza e di quelle “si nutrono” i loro occhi e le loro menti. C’è sempre il rischio di diventare disumani come lo sono certi criminali, penso io.
Sono cose molto delicate e l’autore con delicatezza ha trattato l’argomento. Non mi piace invece che facciano un film, perché questo contiene per forza di cose, il punto di vista del suo regista.
Ora torniamo alle guardie: “scusi signor tenente…. che con poco più di mille euro al mese…” nessuno ci ama, se non nelle parate o quando conviene e per lo più con ipocrisia.
Non sono le guardie il problema, e nemmeno “certe” guardie, ma piuttosto il sistema giudiziario penale e il suo apparato legislativo. Ma anche la nostra mentalità del “mettilo in cella e butta le chiavi!” che è quanto di più sbagliato si possa fare, dire e pensare.
Quando le istituzioni dello Stato non riescono a proteggere un cittadino a loro affidato significa che qualcosa in quello Stato non funziona. Nessun cittadino può morire nelle mani e per mano dello Stato.