
LA CURA DEL CORPO, DA PARTE DI UN MEDICO, PRESCINDE DALL’ATTENZIONE ALLA PERSONA?
Un medico coscienzioso sa benissimo che una pillola, da sola, non salva mai nessuno dalle patologie, e le più lievi e le più destabilizzanti. Quello che più conta nel percorso di recupero, di tutela e di valorizzazione della salute di una persona è la relazione protettiva, accuditiva e propositiva, con se stessi, con gli altri e con l’ambiente naturale.
Spesso, però, le esperienze quotidiane di ciascuno verificano che l’attenzione meticolosa, scrupolosa e premurosa verso la cura e lo sviluppo integrale di una persona non è radicata né nelle condotte dei sanitari né in quelle dei pazienti. E tanto meno nel sistema sanitario nazionale, mosso da interessi che nulla hanno a che vedere con la salute. Per non parlare delle multinazionali dei farmaci.
Ecco una miserabile avventura metropolitana successa ad un anziano ultrasettantenne. La drammatica esperienza può accadere a chiunque si permette di pretendere il rispetto della legalità e della propria dignità in uno studio medico. Ma anche in un ufficio comunale, in una scuola o in un qualsiasi centro dove si offrono prestazioni sociali.
Ore 8.45. Due pazienti attendono l’arrivo del medico, ma rimangono costernati quando leggono su un foglio formato A4 il seguente testo: “Oggi il dottor XXXXXXXX non riceve, i pazienti potranno rivolgersi al dottor XXX, dalle ore 10 alle 12”.
Disappunto per il disguido temporale, non comunicato tempestivamente, che scombina il programma della giornata.
Arrivano altri pazienti, e i commenti, del tipo Il dottor XXXXXXXX arriva sempre in ritardo, ma è bravo!, all’indirizzo del medico, fioccano come in una tormenta di neve.
Ore 9.20. Con sorpresa, il medico XXXXXXXX incede verso il suo studio. Tutti ammutoliscono. Bofonchiando qualcosa, il sanitario alza la saracinesca. I pazienti si accomodano, e lui si riallontana con comodo in un vicino bar per prendersi il caffè.
Sala d’attesa. I borbottii non si placano, e lo sdegno monta.
Ore 9,40. Riappare, serafico, il medico.
Anziano paziente (indignato ed esasperato): “Dottore, non si tratta la gente in questa maniera. Anche noi abbiamo impegni. Impara ad essere puntuale. A rispettare gli utenti del SSN”.
Medico: viso terreo, seccato, con voce alterata. Replica: “Io non dovevo venire oggi. Ringraziate il cielo che sono venuto. Ho perso l’aereo”. Incredulo e stravolto, per la rimostranza. Mentre infila con difficoltà la chiave nella toppa, con veemenza, rivolgendosi al paziente che lo ha appena ammonito, inveisce: “Te ne puoi andare, vai da un altro medico! Io non ti ricevo”.
Paziente Risoluto dichiara: “Di qui non mi sposto neanche con i carrarmati”. Non appena il medico entra nello studio, lo segue e placidamente si accomoda.
Scena: montagnole di medicinali da tempi immemorabili troneggiano su tutti i ripiani, persino sul lettino sanitario che, presumibilmente, dovrebbe servire per visitare i pazienti. La polvere ringrazia, potendosi comodamente insinuarsi in tutti gli anfratti, senza che nessuno disturbi il suo sereno riposo.
Medico. Accomodandosi, urla con un’invettiva furente e spasmodica: “Va a fare in c …”.
Paziente. Con un’imperturbabile stoccata di accondiscendenza, reagisce: “Se metti a disposizione il tuo fondoschiena, ci vado!”. Poi continua, esasperatamente indignato: “Non c’è una volta che non arrivi in ritardo, ti prendi sempre la mezz’ora accademica”.
Medico. Alzatosi, urla: “Io chiamo il 118! Tu mi stai offendendo”.
Paziente. Passa al contrattacco: “Sto reclamando i miei diritti di cittadino. Puoi chiamare anche il 119 ed il 120, peccato che non li posso giocare al lotto”. Poi aggiunge: “Tuo padre era una brava persona”.
Medico. Risentito, reagisce: “Non ti permettere di nominare mio padre”.
Paziente: “Lo sto elogiando, depreco il tuo incorreggibile comportamento, lesivo della dignità dei pazienti e del tuo ruolo istituzionale, che ti impone il rispetto dell’orario”.
Medico. Esce spazientito dallo studio, raggiunge i pazienti seduti nella sala d’attesa ed urla: “Ho i testimoni, mi hai offeso, ora prenderò nota dei loro nomi. Ti denunzierò”.
Paziente donna entra nello studio, si ferma nei pressi dell’anziano signore ed esclama: “A me piace il dottore!”
Paziente anziano: “Signora, si accomodi, per favore! Non è il suo turno. Le sue risibili considerazioni le tenga per sé”.
Medico. Esasperato, riaccomodandosi alla poltrona esclama: “Tu fai sempre casino dappertutto”.
Paziente: “Mi ribello tutte le volte che mi imbatto in prevaricatori come te”.
Medico: “Questa è casa mia, e faccio che c… mi pare”.
Paziente: “Lascia da parte quegli attrezzi, utili in altre occasioni. Un po’ di decenza verbale non ti farebbe male. Questo studio è un locale pubblico, e tu sei un pubblico ufficiale, non un privato cittadino”.
Medico: “Non darmi del tu, pretendo il ‘lei’”.
Paziente: “Mi invita a nozze. Solo con persone prevaricatrici, pretendo il ‘lei’”.
Ormai le urla della baruffa si sono sopite. All’esterno non arrivano neanche flebili mormorii, mentre nella sala d’attesa si è assiepata un bel po’ di gente che commenta l’accaduto.
Paziente. Ottenuta la ricetta, con inchino verso il medico: “Dottore, auguri e… buon lavoro”. Poi, attraversando la sala, con voce compita: “Signore e signori, buongiorno”.
Mentre si allontana, dentro di lui affiora il pensiero del filosofo francese Camus: “Mi ribello, dunque siamo”. E commenta a se stesso: con la propria singola autodeterminazione si riesce a conquistare quella di un intero popolo.
Poi, retoricamente ed ingenuamente, si chiede: Ma perché la gente subisce passivamente e non reagisce alle prevaricazioni? Non sa che chi lascia fare e si accontenta è antropologicamente fascista? E non è forse autoritario lo Stato che non educa alla responsabilità, non controlla la qualità del servizio ed il rispetto delle regole da lui prodotte?