Camus si sente impotente di fronte all’ingiustizia che annienta l’umanità dei “vinti”. Non chiede pietà per loro, solo il pudore che, a chi si gode lo spettacolo, certamente difetta…
Ideato all’indomani della vittoria del Fronte popolare, dopo molte difficoltà, «Alger républicain» esce con il suo primo numero solo il 6 ottobre 1938, nel clima di stanchezza, di confusione della coalizione di sinistra e di rivincita delle destre. Sostenuto dalle forze democratiche e dagli strati progressisti presenti in Algeria, proprietà di migliaia di piccoli azionisti guidati da Jean-Pierre Faure, il quotidiano viene praticamente inventato da Pascal Pia, venuto appositamente da Parigi, con l’apporto fondamentale di Albert Camus. Le sue finalità, più volte illustrate nei numerosi comunicati apparsi sulla stampa sindacale e operaia, sono così sintetizzate il 15 gennaio 1938: «Un giornale d’informazione […] che si propone di fornire ai suoi lettori notizie vere, attinte dalle migliori fonti, con la preoccupazione costante di onestà e di oggettività. Sarà la voce dell’Algeria presso il Governo, il Parlamento e l’opinione pubblica della metropoli. L’emancipazione dei nostri fratelli indigeni e il soddisfacimento delle loro legittime aspirazioni saranno egualmente la preoccupazione costante di «Alger républicain».
Questo impegno Camus lo assume con serietà e l’assolve con straordinario pudore. Ecco come anche una breve del 1 dicembre 1938, trattata con sensibilità, può far riflettere e commuovere.
La sosta nel porto d’Algeri di una nave diretta verso la colonia penale è l’occasione per ricordare con accenti sobri ma efficaci la dignità che va riconosciuta a tutti gli uomini. Ottenuta l’autorizzazione, in una giornata di fine novembre, grigia, ventosa e gonfia di pioggia, Camus si reca a visitare Le Martinière, la prigione galleggiante in cui sono rinchiusi più di seicento ergastolani. Non è molto fiero di penetrare dentro la solitudine e la disperazione di quegli «uomini radiati dall’umanità». Compie il suo dovere di cronista, in silenzio, e riporta quel che vede con parole misurate: «Mi dirigo verso la scala della stiva di prua dove una sentinella armata monta la guardia. Scambio con lei qualche parola mentre ascolto il rumore roco che a tratti sale dalla profondità della stiva, simile a una respirazione disumana. Giù ci sono i prigionieri.
Se guardo nella stiva, scorgo solo il buio da cui spuntano i primi scalini verso cui mi dirigo. In fondo alla scala bisogna fermarsi e lasciare che gli occhi s’abituino all’oscurità. A poco a poco distinguo il bagliore delle bacinelle e delle gavette nel mezzo della stiva, il luccichio di un fucile che avanza verso di me insieme a una sentinella, e da entrambi i lati, lungo la stiva, delle sbarre bianche su cui presto prendono forma delle mani».
Quelle mani appartengono a uomini senza volto, ombre inquiete e anonime, stipate dentro anguste gabbie, dotate nella parte superiore di bocchettoni predisposti per versare vapore acqueo in caso di sommosse.
«Nell’altra stiva – prosegue il cronista – gli uomini sono seduti o legati alle sbarre. Alcuni mi osservano, altri ridono o si danno di gomito, altri mi fissano con sguardo inespressivo o se ne stanno in silenzio guardandosi le mani. A questo punto, sospesi ad un oblò, scorgo tre Arabi che guardano Algeri. Per i loro compagni è un paese straniero in un mondo straniero, ma per loro è ancora un po’ di se stessi che cercano attraverso la pioggia. Non sono molto fiero d’essere qui. So bene cosa può recare a quegli uomini il mio impermeabile inzuppato – l’odore di un mondo dove gli uomini corrono e possono sentire il vento – ed è proprio l’ultima cosa da portare qui dentro».
Uscendo dalla stiva, sa che ci sono altre mani sulle sbarre, altri sguardi senza espressione. Quello che ha visto gli basta. D’altro canto non può fare nulla per loro, neppure allungare una sigaretta a chi gliela domanda, anche questo gesto di complicità tra uomini è negato. Rimane fino a tardi, quando Le Martinière leva l’ancora, pensando all’uomo cui ha dovuto rifiutare una sigaretta. Si sente impotente di fronte all’assurdità di una giustizia che non si limita a proteggere la società – così si dice – ma annienta anche l’umanità di quelli che giudica e non fa nulla perché la loro dignità sia salvaguardata. Non chiede pietà per loro, solo il pudore che, alle dame eleganti venute a godersi lo spettacolo, certamente difetta. Ciò che gli procura un fremito di orrore è l’ineluttabilità di un destino senza appello.
L’attenzione alla dignità umana ferita dall’ingiustizia torna in un articolo del 14 gennaio 1939 che descrive il singolare e amaro spettacolo di uomini coperti di stracci, invitati a mangiare un couscous offerto dalle autorità e distribuito da dame benestanti. Tra gli ulivi di alcuni cimiteri di Algeri, sotto un cielo luminoso, una folla di poveri mangia per un giorno quello che la carità distribuisce e la giustizia nega nel resto dell’anno. Nessun biasimo per chi compie una carità così necessaria e utile, «ma occorre riconoscere, annota il cronista, che il compito degli uomini, il compito di tutti noi, dovrebbe essere di rendere inutile questa carità».
Camus sa che i poveri, i bisognosi, le vittime dell’ingiustizia non si trovano solo nei quartieri arabi, ne conosce anche tra i piccoli coloni che stentano a vivere a Belcourt; anche nella casa dei Sintès la vita non è facile, ma gli è giocoforza notare «che non ha mai visto una popolazione europea miserabile quanto la popolazione araba». Se così stanno le cose, «una ragione ci deve essere»: come dire con una litote più efficace l’esistenza di un’ingiustizia che non è solo grave in sé, ma costituisce una minaccia per tutti, per i piccoli coloni, per i suoi, con cui si sente e si vuole solidale?
Le circostanze mutano, anche i luoghi, ma le ingiurie alla giustizia e al pudore sono ancora all’ordine del giorno.