Scriveva la Weil, “per farsi un nome, giova essere circondati da una banda di ammiratori animati da spirito di parte”? Se già allora lo vedeva come pericolo, pensate a cosa direbbe oggi…
La politica educa a qualcosa? La comunicazione politica odierna sembra seguire, sempre e comunque, la pancia della gente. La recente pubblicazione da parte di un noto esponente politico del video di uno stupro in strada ci deve far comprendere come si sia superato il limite. Non sono limiti solamente legati alla liceità o alla decenza nel pubblicarlo. Non è su questo che voglio riflettere. Non entro quindi in questo dibattito che il video ha suscitato. Cerco invece di comprendere il motivo per cui non si ragioni più all’educare a un senso civico più forte. Riusciamo a educare al senso politico con l’uso spregiudicato di video come quello da cui parte la mia riflessione? D’altronde, se proprio vogliamo dirla tutta, anche dalla parte opposta politica, in tempi non sospetti, sono stati fatti attacchi, anche da docenti universitari, che individuavano la Meloni con epiteti non facilmente ripetibili, senza che la si difendesse. Ance lì la domanda era valida e lo è tuttora. La temperatura politica è d’emergenza, da allerta, quasi gli avvisi meteo.
Insomma, non è che la comunicazione politica odierna se la passi liscia. È come se si riempisse di parole e di immagini la pochezza di contenuto o si rimestasse lo stesso minestrone di continuo fra epiteti e frasi d’attrito. E questo è un modo di fare bipartisan, sia chiaro. Ma, ripensandoci, tutt’altra cosa è l’educare e l’educarsi alla politica. Se abbiamo vie della movida ma non abbiamo sezioni partitiche aperte, se non sotto le elezioni, qualcosa ci deve interrogare. Bene scriveva qualche anno fa Luisa Santelli Beccegato che affermava che “se nell’ambito politico la formazione del consenso è segno della validità, del successo, della tenuta di una proposta di governo, nell’ambito pedagogico è l’elaborazione della propria identità, la formazione della personale ‘comprensione delle cose’, la capacità di elaborare scelte autenticamente e profondamente personali ciò che giustifica, qualifica e dà validità a un percorso educativo in cui consenso, ma anche dissenso possono venirsi costruttivamente a intrecciare”[1]. Ora, la pedagogia politica è stata espulsa, abbandonata sui relitti di un modello di pensiero che fa delle prese di posizione ferree la propria forza. Oppure resa ancora più liquida da accordi e disaccordi che durano l’arco di qualche giorno, con annunci roboanti e attacchi all’alleato di qualche ora prima. La zattera del pensiero è stata abbandonata, derisa. Certo, non dobbiamo nemmeno dire che i tempi andati sono i migliori. Non si navigava nell’oro nei tempi delle tribune politiche anni Sessanta e Settanta, specie quando intervenivano gli attentati delle Brigate Rosse o degli estremisti di destra. Ma la gravità, il peso di quello che oggi viviamo sembra non interessare a nessuno.
Si parta proprio dal comparto istruzione. Prima di fare promesse nell’investire in una scuola che aumenti gli stipendi degli insegnanti, portandoli allo stesso livello di quelli europei, prima di investire il denaro dei vari Pnrr, forse servirebbe investire in sobrietà. Le classifiche di rendimento delle scuole creano una disparità di trattamento, di giudizio che acceca il lavoro, spesso eccelso, che si fa nelle zone periferiche delle grandi città, abbandonate e a sé stesse. Il successo appare come più rilevante, anche quando uno studente deve scegliere dove iscriversi. E questo anche nelle Università, dove sembra di assistere a un campionato di calcio con un mercato sempre aperto, fatto di offerte continue. Ecco, se la democrazia è il momento in cui il cittadino può scegliere il proprio rappresentante in Parlamento, ti capiterà di avere nel proprio collegio persone lontane dal territorio, che non sanno nemmeno dove si trovino i vari paesini e località di cui quel collegio è composto. Il cittadino, dopo aver ingoiato l’amaro di essere rappresentato anche da chi non è del luogo, sceglie il premier. Salvo poi giungere ai governi di unità nazionale, alla scelta non venuta dal basso di premier non individuabili nelle urne ma in seguito, quasi tradendo, pur se nel solco legittimo della Costituzione, il mandato elettorale. Forse la vera politica è questa? O non è in quella tenuta dell’identità e della persona, dispersa fra norme, leggi e cavilli che la individuano solo in test per cui definire la tenuta delle nostre scuole? Guardando i talk show e facendo una statistica emergono poi sempre gli stessi invitati, le stesse parole, le stesse conclusioni. Fossi io il loro docente a molti non darei un voto positivo, specie se non si sa nulla di geopolitica, se di storia si è studiato il minimo indispensabile. Una classe davvero quella dei politici. Pensateci. Quasi che chi va in Parlamento siano solo le solite 20 persone che girano i vari studi televisivi. E non numeri maggiori, ma i cui volti non sappiamo. C’è un lato positivo però. I ragazzi, i nostri giovani, non guardano più la tv. Non se ne interessano, men che mai in estate quando il divertimento, speriamo sano, deve avere il diritto di insinuarsi nelle loro vite. Se la vedono è perché si è costretti. A scuola questo l’ho scoperto, quando insegnando i Sofisti ho chiesto loro di fare l’analisi accurata di un programma politico a scelta. Alla fine i ragazzi, che scoprivano ci fosse un Porta a Porta, un Agorà, un Controcorrente, un Carta Bianca ti segnalavano la stessa cosa: ragionamenti lontani, sconclusionati. Non è che la comunicazione politica, mentre alcuni partiti vogliono parlare ai ragazzi, sta avvitandosi, si sta fermando e bloccando?
La comunicazione politica è un’arte che deve educare e non solo indirizzare il voto. Ma ve lo immaginate che fatica posso avere io, docente, a spiegare l’importanza della politica a scuola se gli esponenti non se le mandano a dire quotidianamente, attaccando e denigrando, con le stesse identiche frasi trite e ritrite negli stessi talk show politici? Peccato che io non sia un conduttore televisivo, che con uno schiocco di dita possa zittire il microfono di qualcuno o cancellare un video sui social. No no. Io devo aiutare all’ascolto ma se la stessa politica si esprime con le solite vuote frasi e promesse, con le costanti prese di posizione anti qualcuno e mai pro, forse una domanda ce la dovremmo fare. Ma la politica educa? La politica può parlare senza distruggere? Me lo chiedo, perché sembra che questo sia impossibile oggi. Anche all’interno delle stesse compagini politiche emergono i distinguo, le prese d’atto, le distanze. E allora pensi che forse non aveva torto Simone Weil quando scriveva che “sul continente europeo il totalitarismo è il peccato originale dei partiti. Da un lato c’è l’eredità del Terrore, dall’altro l’influenza dell’esempio inglese che introdusse i partiti nella vita pubblica europea. Il fatto però che questi partiti esistano non è assolutamente un motivo valido per conservarli. Solo il bene è motivo valido di conservazione. Il male dei partiti politici salta agli occhi. Il problema da esaminare consiste allora nel vedere se in essi vi sia un bene che abbia il sopravvento sul male, rendendo pertanto desiderabile la loro esistenza. Cade tuttavia molto più a proposito la domanda: nei partiti esiste una parte, per quanto infinitesimale, di bene? Non sono essi un male allo stato puro o quasi? Se sono un male, allora è chiaro che di fatto e nella pratica non possono che produrre altro male”[2]. La Weil, che veniva dall’esperienza di una Europa preda delle forze reazionarie e distruttive, oggi avrebbe detto la stessa cosa, quasi di certo, anche aggiungendoci i movimenti. La presenza di 101 partiti che hanno presentato i propri simboli deve far pensare. Abbiamo loghi in cui emergono inquietanti ghigliottine, nostalgici di un Sacro Romano Impero resuscitato chissà dove, un Pinocchio decapitato usato a mò di pallone da calcio, un elogio alla follia di sapore erasmiano, lampadine accese e altri loghi pittoreschi o pieni di ideali liberali, socialdemocratici, comunisti, cristiani. Il male quale sarebbe oggi? Molti di questi simboli nascono sull’onda delle discussioni online, in assemblee autoconvocate e nascoste nei meandri del web, da far impallidire quelle televisive. Ma mancano i ragazzi. Abbiamo nostalgici delle vecchie contrapposizioni novecentesche ma anche una fortissima disillusione. Fascismi e comunismi, socialismi e liberismi. Tutto si connette, tutto è permesso, tutto serve per attirare il voto. Ma della gerontocrazia non dei ragazzi. Tanti astensionismi verranno da ragazzi già nelle sedi universitarie, impossibilitati anche a recarsi alle urne perché lontani dalle sedi elettorali definite. Teniamo conto che stiamo crescendo una generazione giovanile che di politica non vuole saperne nulla, in cui è difficile accendere la fiamma dell’interesse civico. Salvo scegliere qualcuno che abbia ammiratori per qualunque motivo. Forse che una nuova dittatura, quella del partire dal basso ma che nei fatti è posta dall’alto secondo logiche vecchie, sta gettando lontano dalla politica le idee nuove? Non è che le agenzie educative devono porsi la propria responsabilità di comunicare il bene comune e non solo l’individuale? È da considerare che, lo scriveva ancora la Weil, “per farsi un nome, giova essere circondati da una banda di ammiratori animati da spirito di parte”[3]? Se lei lo vedeva come pericolo, pensate a come lo possiamo vedere oggi…
[1] Luisa Santelli Beccegato, Pedagogia neo-personalistica: l’educazione alla politica come impegno ineludibile, https://www.metisjournal.it/metis/anno-ii-numero-2-dicembre-2012-etica-e-politica-temi/84-saggi/253-pedagogia-neo-personalistica-leducazione-alla-politica-come-impegno-ineludibile.html
[2] Simone Weil, Note sur la suppression générale des partis politiques, ed. italiana Senza partito, Apogeo 2013, IF. Idee Editoriali Feltrinelli, p.18.
[3] Ibidem, p. 40