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«Io mi salvo solo se attraverso me si salvano gli altri»

(Appunti di eSegeSi)

Sono tornata in Piemonte dopo l’estate in Puglia, a casa dovrei dire. Andata via a luglio, tornata a fine agosto.

Il pavimento del mio balcone settentrionale è piastrellato con materiale vecchio stampo: piccoli mattoncini bianchi e quadrati, di circa cinque centimetri l’uno, fughe in cemento molto ravvicinate, estetica da strapazzo. In questo quadretto non proprio perfettamente dipinto, al mio rientro ho trovato un rametto verde, con le sue foglioline tenere, cresciuto impavidamente fra una piastrella ed un’altra. Era lì, solo, in mezzo al niente, vivo, neonato.

Roba da far pensare ai baobab del Piccolo Principe, quelli che da piccoli sembravano teneri e potevano essere confusi con le piante buone, ma andavano sradicati subito, per evitare che le loro radici, una volta cresciute, distruggessero il pianeta.

Dunque ero perfettamente conscia della potenziale pericolosità di quel bellissimo rametto: dovevo assolutamente toglierlo, altrimenti di lì a poco mi avrebbe fatto saltare tutto il pavimento.

Immaginate voi quanta forza doveva nascondere un esserino così piccolo, per essere spuntato senza nessuna cura, in mezzo alle piastrelle? Da averne terrore!

E io invece riuscivo solo ad averne rispetto. Non ci sono riuscita, subito, a darla vinta al raziocinio: come potevo trovare il coraggio di ucciderlo? Chissà quanta fatica gli era costata vedere la luce! Ho scelto di non fare niente per un po’ ed ho pensato che avrei lasciato andare le cose come dovevano, senza mai smettere di osservarle, per poi decidere cosa fare.

Così è stato: sapevo di avere trovato in casa uno splendido regalo evidentemente rischioso da trattenere, ero consapevole di avere tutte le possibilità di sbarazzarmene, o meglio, addirittura sapevo che avrei dovuto assolutamente farlo, pena la distruzione, ma niente, per il momento avevo scientemente deciso di non farlo e restare a guardare. Quel regalo era troppo, perché io deliberatamente lo danneggiassi. Poteva danneggiare me, era vero, ma mi serviva tempo.

Ecco che, come per ogni previsione ragionata, non potevo certo aspettarmi un epilogo diverso da quello pronosticato. Sono trascorse circa tre settimane, il mio rametto ha continuato a crescere là fuori, in mezzo alla calce tra una piastrella e l’altra, nonostante qui a Domodossola ci sia stato moltissimo caldo e pochissima pioggia. È diventato tre volte più alto, si è irrobustito, ha messo altre foglie e sono spuntati diversi germogli.

Oggi è domenica, sono sola in casa, ho preparato il caffè e mi sono seduta in poltrona: da qui si vede un bellissimo panorama ancora verde, che crea dicotomia con il pavimento bianchissimo del balcone; tra poco non ci sarà più differenza, saranno bianchi anche i monti, penso. È il pensiero utile a tergiversare: devo prendere quella decisione.

Il mio rametto, non più così rametto, è sempre più bello, ma sempre più pericoloso. Io ancora ho il potere di sradicarlo senza fare fatica: l’impresa vera, però, sarà vivere il dolore che mi infliggerò nell’attimo in cui ucciderò quell’alito di vita, che abbasserà la testa adesso dritta e tronfia e morirà senza dirmi niente. Una cosa che mai avrei voluto fare.

È in questo istante che penso alla coniugazione dei verbi: se mai avrei voluto, mai vorrei. Pertanto, mai voglio. Non posso far saltare tutte le piastrelle del mio amatissimo balcone, ma non voglio uccidere il mio rametto. Anche perché se vero è che non l’avevo cercato, è pure vero che l’ho trovato ed ho scelto io di non sbarazzarmene immediatamente lasciandolo crescere in casa mia, più o meno liberamente. Porca miseria, mi sono assunta una responsabilità e nel mio mondo le responsabilità non si cancellano.

Bene, ho deciso. Ci vorrà molto impegno, ma poiché è verissimo che mai avrei voluto uccidere, non ucciderò: cercherò il modo per provare a salvare. Non la darò vinta all’istinto di sradicare tutto da un momento all’altro, per dirmi salva solo io.

Così finisce il caffè, poso la tazzina sporca nel lavandino, prendo un vaso, lo riempio di terra per metà e vado sul balcone. Mi metto in ginocchio davanti al rametto, lo tocco e noto che le sue radici sono effettivamente diventate visibili: faccio in modo di tirare via anche loro, ci metto tutta la cura che posso, sfido la mia proverbiale allergia al terreno ed alle piante, inizio a lacrimare per il bruciore agli occhi ed a sentire prurito ovunque. Sapevo anche questo, l’allergia mi avrebbe fatta impazzire, ma non era un motivo sufficiente per non fare quello che sentivo di dovere e volere fare.

Poso il rametto nel terreno, ne aggiungo altro, lo innaffio e lascio il vaso nell’esatto punto dove tutto era nato: penso che anche le condizioni di luce di quel preciso posto potrebbero aiutare.

Ecco, il pavimento è salvo, di domenica, dopo il caffè. Non ho ucciso la piantina che il caso mi ha regalato. Era pericolosissima, adesso non lo è più e non è stato necessario riservarle la morte. È sempre con me, ci saluteremo ogni mattina e non ci faremo del male vicendevole in questo modo. Certo, le sue radici ora potrebbero non attecchire; mentre prima viveva da sola, ora forse avrà bisogno che io mi ricordi di lei ogni giorno perché il mio intento di lasciarle la vita funzioni, non potrò permettermi distrazioni.

Una cosa però è certa: ho evitato la devastazione del mio amato balcone, ho fatto e continuerò a fare di tutto per salvare il rametto, ho salvato me.

Questo perché, mi ripeto (come faceva il Piccolo Principe per non dimenticare) mai avrei voluto significa mai vorrei, che si traduce in mai voglio.

Non vi nascondo che una tale soluzione mi era stata suggerita sin dai primordi di questa vicenda da chi di piante ne capisce, ma mi sono presa il mio tempo. Di domenica io non ho parole a sostegno delle mie tesi: ho un fatto. A forma di vaso.

E se il mio rametto fosse stato un essere umano, oggi avrei evitato di ammazzare qualcuno in nome della salvezza del mio orto. Non avrei sacrificato quella, non avrei ucciso un uomo o una donna, avrei salvato anche me.

Ah, una nota: da oggi rametto ha un nome. Si chiama Dodì, la traduzione in ebraico dell’italiano Amore Mio.

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FontePhoto credits: Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.