
In tempi in cui la parola è stuprata, manipolata, banalizzata, ritrattabile, occorre riscoprire la dimensione etica del comunicare.
Purtroppo si assiste spesso a una lotta contro il tempo nell’addossare all’altro le proprie pecche per giocare di anticipo e così distogliere dalla propria storia l’attenzione di chi “potrebbe sapere”. È la dimostrazione che, nonostante la grande benevolenza nell’essere accolti al di là del proprio passato, il lupo perde il pelo, ma non il vizio: l’indole della persona non è mutata con il cambiare delle esperienze.
È patologico constatare l’attrito tra il fare terra bruciata di coloro che avrebbero potuto costituire una risorsa per la propria attività e la generale tendenza a “fare squadra” con chi esercita una professionalità acquisita non “per decreto dall’alto”, ma derivante dal mercato e soprattutto dai risultati (salvo cecità prodotta dall’arroganza); fatto questo che rivela un dispotismo gestionale all’interno di una inconsistente, quanto assente, autorità preposta alla verifica di certi operati.
Il dialogo, fondamentale nella costruzione di tutte le forme di convivenza, è messo in pericolo da “piazzisti di fanfaronate da osteria” che provocano la lacerazione del linguaggio e lo stupro della parola attraverso una programmatica delegittimazione del valore dei termini, che incrina tutti i rapporti di fiducia e rende poco credibili le promesse reciproche. Per questo è necessario riscoprire il rigore della comunicazione e l’esercizio costante del senso critico nei confronti degli strumenti di manipolazione, che piegano l’uso delle parole ai propri dispotici disegni anche in tribunale: qui è opportuno ricordare la piaga violenta della falsa testimonianza.
Oggi, sostiene il monaco Luciano Manicardi, viviamo nel mito dell’esaltazione della comunicazione, ma anche gli animali comunicano, mentre il distintivo della comunicazione umana è la parola. Custodire e salvaguardare lo statuto della parola è un compito del cittadino, del politico, ma anche del religioso, il quale cerca di fare della sua vita spirituale, attraverso l’ascolto e il silenzio, un’arte di quella Parola produttrice di valori …nel suo ambito vincolanti. Questa è un’azione sacra, ma con valenza politica: se svuoto la parola, inevitabilmente destabilizzo la democrazia.
Non possiamo dimenticare che viviamo grazie a parole che accettiamo comunitariamente come leggi e regole. Viviamo di parole scambiate, di concertazione, di dibattito, di dialogo…, e così cerchiamo un bene e un senso comune; ma se la parola viene pervertita e svilita, allora si destabilizza la convivenza civile con il rischio di non affidarsi più al potere della parola ma alla parola del potere, a cui non si può controbattere.
Nella Bibbia leggiamo “la Parola si fece carne”. Da ciò non deriva solo il culto della Bibbia, ma anche un’etica e una responsabilità del parlare. È mediante l’uso che noi facciamo delle parole che creiamo relazioni. Il religioso, che è tale perché passa ore a meditare la Parola, dovrebbe diventare un artista credibile della Parola.
Un altro compito del religioso è custodire la sacralità del volto. L’unica immagine di Dio che abbiamo è il volto dell’altro, nella sua unicità, nella sua preziosità e precarietà. Il volto è icona di Dio. Dunque, la seconda cosa che desta la mia preoccupazione, continua Manicardi, è la demonizzazione o l’umiliazione dell’altro, specialmente del più indifeso come il lavoratore subalterno nell’ambito di un’azienda con meno di 15 dipendenti.
Queste due realtà sacre, la parola e il volto, sono sì il cuore della vita ecclesiale, ma sono soprattutto alla base della vita politica da recuperare.