«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?»
(Purgatorio XXX, vv.73-75)
Tre volte dieci: non c’è bisogno di essere esperti di numerologia, basta sapere quanto Dante tenga all’uso simbolico dei numeri per capire che siamo in un canto, il trentesimo del Purgatorio, centrale in tutta la dinamica della Divina Commedia.
È il canto in cui scompare Virgilio e compare Beatrice.
L’incipit è veramente da paradiso terrestre: c’è clima di attesa, di sospensione, una pioggia di fiori accompagna l’apparizione della donna amata, cinta di olivo, vestita di rosso, con un mantello verde e un velo bianco…
Ci aspetteremmo un Dante esultante e invece è tutto il contrario. È un personaggio attonito, smarrito, contrito, pieno di vergogna, quello che viene messo in scena. Un Dante che si vede all’improvviso privato della compagnia di Virgilio e prima piange a calde lacrime la perdita del «dolcissimo patre» (v.50), poi, a capo chino e in silenzio, accoglie l’aspra paternale di Beatrice, superba come una madre che con «pietade acerba» (v.81) corregge il figlio che si era smarrito.
Solo la compassione degli angeli fa sì che le lacrime che si gelano nel petto di chi cantò donna Petra, tornino una seconda volta a sciogliersi in pianto, proprio come la neve dell’Appenino si liquefà all’arrivo dei venti africani.
Si è già scritto sul traviamento di Dante, al fine di stabilirne la natura. C’è chi sostiene che si tratti di un peccato in ambito morale, chi ipotizza un oltraggio di ordine intellettuale. I primi si soffermano sul tradimento di Beatrice che Dante avrebbe consumato con altre donne. I secondi evidenziano il suo darsi alla filosofia “tradendo” la teologia, quasi che si possa arrivare a Dio con la sola ragione, cioè con Virgilio, e non già con la ragione illuminata dalla fede, ovvero proprio con Beatrice. Altri, in maniera convincente, argomentano che una tesi non esclude l’altra.
Francamente, mi sembrano discussioni che hanno segnato il loro tempo. Di sicuro, Dante è un uomo che a un certo punto si è smarrito, proprio come capita a tanti di noi. Di sicuro, ha capito di non potercela fare senza chiedere aiuto, ed è auspicabile che ognuno di noi possa fare la stessa scoperta. Nessuno scampa alla valle oscura da solo, come nessuno nasce da solo. Questo è. Si può morire da soli, questo sì: ed è tremendo.
Quanto al resto, che Dante abbia sbagliato non è una novità: è umano. Piuttosto, a me a pare poco umana, e poco divina, la durezza di Beatrice. E se capisco che le ragioni con cui giustifica il proprio comportamento siano funzionali allo schema narrativo, nondimeno a me suonano come excusatio non petita: «Guardami bene, sono proprio io, sono Beatrice. Come hai osato? Accedere al Paradiso Terrestre! Non sai che questo è il luogo destinato all’uomo felice?».
Risposta, come se fossi Dante: «Beatrice mia, è vero, non son degno di accedere al monte della gioia, e però vi anelo proprio come ogni uomo e ogni donna. La felicità è un dono, prima che un merito. Io magari non la merito, ma non per questo non l’accolgo o almeno ci provo…».
Margaret Mazzantini: «Nessuno si salva da solo. Possono sentire l’eco di quelle parole cadere davanti ai loro passi. Una condanna o un conforto».
Marcel Pagnol: «La ragione per cui le persone trovano così difficile essere felici è che sempre vedono il passato migliore di quello che era, il presente peggio di quello che è, e il futuro meno risolto di quello che sarà».
Jorge Luis Borges: «Ho commesso il peggior peccato che un uomo possa commettere: non sono stato felice».
La felicità è un sogno, meglio accontentarsi della serenità? Eppure aneliamo alla felicità, al bene supremo, all’estasi e non ci basta la dorata mediocrità. Siamo fatti per le grandi aspirazioni e il nostro cuore vibra al pensiero di poter essere appagati compiutamente. Siamo intessuti con l’infinito e verso questo traguardo siamo inclinati, anche se consapevoli di non meritarlo. Ma forse godiamo solo di quello che riteniamo ci tocchi per diritto? Se fosse così non saremmo mai appagati. Niente arriva perché di dovere. È tutto un dono!
Intessuti di infinito: ecco il Dono!
Il rumoroso silenzio della solitudine comprime l’uomo nella sua giusta dimensione. Egli, di solito, espande le sue prerogative in modo desiderato da lasciar adito ad esultanze effimere in quanto è sempre la realtà che fa da “calmiere” alla vita. Nemmeno possiamo gestire a piacimento i momenti che ci è dato vivere se non aggiungendo, in modo coerente e non superficiale, la razionalità che è insita in ognuno di noi e separata dalle illusioni, dalla fantasia. Dante, nell’incontrare Beatrice e subendo quella sua forma imperiosa, sembra non voglia comportarsi come persona fuori-posto in cui egli si trova…
Le risposte a chi si comporta in modo scortese e rimaste ingoiate da chi dovrebbe esprimerle, restano come giudizio libero da parte di terzi. Nel nostro caso, trattandosi dell’Opera per eccellenza, “La Divina Commedia”, possiamo definire che la vicenda possa essere interpretata soggettivamente, tenendo conto ognuno della propria esperienza e metterla, tacitamente, serenamente a confronto con quella parte conosciuta del Divino Poeta. Il risultato non potrà essere che il coagulo sintetico del detto e del taciuto.
Del detto e del taciuto: ben detto, Salvatore!