
“I bambini mostrano le cicatrici come medaglie. Gli amanti le usano come segreti da svelare. Una cicatrice è ciò che avviene quando la parola si fa carne”
(Leonard Cohen)
Caro lettore, adorata lettrice,
non so se tu abbia avuto modo di fermare la tua attenzione sulla foto che accompagnava il caffè di domenica scorsa, quello dedicato alle “risurrezioni impreviste”.
Bene, la foto si componeva di un’alba, facile allusione all’inizio di una vita nuova, e di una tazzina di maiolica. La foto di una tazza di caffè accompagna sempre questa rubrica e, dunque, potrebbe esserti sfuggito che si trattava di una tazzina rotta… ma riparata con l’oro.
Sì, si chiama “kintsugi” l’arte giapponese di rabberciare oggetti in ceramica utilizzando oro o argento fusi e trovo che sia una metafora straordinaria di quanto può accadere a ciascuno di noi.
Siamo tutti “tazze rotte”, prima o poi, nella vita. Un attimo prima eravamo stabili su un piano di appoggio, ci sentivamo “al posto nostro”, a casa, come Ulisse ad Itaca, sicuri, utili e funzionanti, coccolati e amati. Un attimo dopo, una distrazione, un evento imprevisto, o persino un previsto imprevisto – una morte, un insuccesso, una malattia, un tradimento – ci fanno precipitare. Roviniamo a terra, cadiamo male, ci rompiamo in mille pezzi e, da quel momento in poi, ci sentiamo irreparabilmente inutili, “de-funti”, fuori uso.
È esattamente a questo punto che il kintsugi avrebbe non poco da insegnarci. Non si tratta solo di ricordare che è sempre possibile ricominciare, che anche ciò che è rotto può essere riparato, che una sconfitta, per quanto radicata e radicale, non è detto che sia la fine. C’è di più: la riparazione, in questi casi, non si può fare col bostik o con nessun altro tipo di colla. Quando le ferite attraversano l’anima, ci vuole oro fuso.
Caro lettore, adorata lettrice, a questo punto vorrei tanto essere in grado di poterti indicare quale sia l’oro giusto, ma non mi sento adeguato. Il kintsugi esistenziale alcuni lo declinano come resilienza, altri come un nutrirsi di fede e preghiera. A me piace immaginarlo come l’arte di amare e lasciarsi amare. Ipotizzo, potrebbe anche significare accogliersi nella propria umanità, nella propria fallibilità. Potrebbe significare il coraggio e l’umiltà di abbracciare le proprie ferite, di dar loro il tempo di cicatrizzare. E significa di sicuro non provare vergogna delle proprie cicatrici: perché sono le stesse che rendono unica e preziosa la nostra esistenza.
E già, non te lo avevo ancora detto, ma le tazze “rese giuste” (mi piace molto di più che “aggiustate”…) col kintsugi non sono solo di nuovo utili: sono più preziose. Perché sono uniche. E hanno dell’oro dentro. Che mostrano in semplicità.
Sai, mi piacerebbe sapere in quale tazza tu stia bevendo oggi il tuo caffè…
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