Quattro suicidi nell’arco di un mese. In una stessa Città, la mia Città.
Le testate locali hanno preferito non parlarne, coerentemente con quello che la deontologia professionale impone e per evitare quello che la psicologia definisce “rischio emulazione”.
Condivisibile, ma io non sono un giornalista di professione, né tantomeno un aspirante psicologo. Sono un uomo, ho 22 anni e ho bisogno di capire.
Tutti, nel nostro percorso, siamo caduti almeno una volta. Tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo attraversato momenti di difficoltà. Soldi, lavoro, amore sono solo alcuni dei problemi con cui, ognuno di noi, almeno una volta, si è dovuto scontrare.
Tutti cadono, ma perché alcuni non riescono più a rialzarsi?
Gli uomini discendono da gente che è sopravvissuta a un’infinità di predatori, guerre, carestie, migrazioni, malattie e catastrofi naturali. Sono “costruiti” per convivere quotidianamente con le difficoltà che si presentano. La resilienza è la norma nell’essere umano, non la fragilità.
Sono molto legato a questo termine, così come a tutti quei termini scientifici che si adattano a spiegare comportamenti umani. Tutto ciò che deriva dal mondo scientifico mi infonde sicurezza. È come se dentro di me qualcosa dicesse: “Ecco, se è provato scientificamente che un corpo può resistere agli urti senza rompersi, allora varrà lo stesso anche per gli uomini”.
Tecnicamente, “resilienza” significa esattamente questo: resistere agli urti, senza rompersi.
Originariamente, infatti, nella tecnologia metallurgica si utilizzava questo termine per descrivere la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità.
Analogamente, in campo psicologico, la resilienza indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. La persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile.
Per quanto suggestivo, il paragone con la metallurgia è pertinente fino al punto in cui ci si interroga sull’origine della resilienza: nei metalli si tratta di una proprietà intrinseca, che può essere più o meno accentuata; negli uomini è una qualità che si sviluppa nel tempo, accentuata o meno da una serie di fattori, sia interni che esterni all’individuo. Si parla, in questo senso, di educazione alla resilienza.
Ma cosa distingue, concretamente, nella vita di ogni giorno, un individuo resiliente da uno fragile e vulnerabile?
Non esiste una risposta univoca, un criterio quantitativo o una scala decimale per rispondere a questa domanda.
Esistono, però, una serie di fattori, di caratteristiche più o meno evidenti, che, se coltivate, possono aiutare un individuo a sviluppare il suo grado di resilienza.
Proviamo a riassumerle.
Sviluppare emozioni positive, ovvero focalizzarsi su quello che si possiede invece che su ciò che ci manca.
Guardatevi intorno: vi renderete subito conto di quanti uomini e donne abbiano scelto di vivere in una tranquilla disperazione. Tutti costantemente pronti a lagnarsi per quello che non possono ottenere, a rimuginare su ciò che sarebbe potuto accadere. Tutti perennemente disattenti nel godere a pieno degli attimi di felicità, nel vivere il presente senza ripensare a ciò che non è mai stato nemmeno passato. Hanno ritenuto che il prezzo da pagare per la felicità e la realizzazione di sé sia troppo alto e che convenga optare per una più mediocre rinuncia alle proprie ambizioni. C’è chi l’ha fatto per quieto vivere, chi per viltà, chi per meschineria, chi per miseria intellettuale, chi per analfabetismo emotivo.
Un vecchio proverbio recita: “Se la vita ti offre limoni, fai una limonata”.
C’è chi lo interpreta negativamente, come un inno alla rassegnazione.
C’è chi lo interpreta letteralmente, come un invito a cogliere il meglio da quello che, in un determinato momento, si ha disposizione.
Poi c’è chi lo legge con terrore, ma degli stitici ci occuperemo in un altro momento.
L’Ottimismo, ovvero la disposizione a cogliere il lato buono delle cose.
La predisposizione d’animo con la quale nella vita ci apprestiamo ad affrontare le diverse situazioni condiziona in modo determinante i risultati delle nostre azioni.
Certamente essere ottimisti non significa avere una visione irreale della realtà.
La vita non è sempre bella e positiva, riserva delusioni, incertezze e sofferenze. Chi ignora questo non è ottimista, è uno stupido. Ciò che cambia è l’atteggiamento mentale con il quale si affrontano le interferenze che, via via, si presentano.
Diventare ottimisti non significa diventare arroganti, poco realisti e irresponsabili ma, al contrario, significa apprendere nuove capacità per imparare a dialogare apertamente con se stessi quando si devono affrontare sconfitte personali o difficoltà. Significa comprendere che guardare con occhi positivi al futuro alimenta un circolo virtuoso positivo e aiuta a superare le difficoltà con maggiore semplicità.
L’autostima, da non confondersi con il narcisismo.
La differenza cruciale tra autostima e narcisismo sta nel rapporto con gli altri. Chi gode di una buona autostima non ha difficoltà ad avere sane relazioni, mentre chi soffre di narcisismo in genere ha delle enormi problematiche a considerare gli altri come esseri a sé e non una propaggine del proprio io.
Autostima vuol dire specchiarsi e capire di amare sé stessi a tal punto da avere la presunzione di riuscire ad amare qualcun altro.
Narcisismo vuol dire specchiarsi e restare a masturbarsi contemplando lo specchio: un’immagine cruda, ma piuttosto evocativa.
Capire queste differenze è fondamentale, perché si corre il rischio, per niente leggero nelle conseguenze, che, sovrapponendo le due cose, ci si ritrovi con un sé ipertrofico, ma vuoti e insicuri, col rischio di scivolare facilmente in molte trappole sociali, nonché, fatto ancora più serio, in molti disturbi di personalità.
Il supporto sociale, definito come l’informazione, proveniente da altri, di essere oggetto di amore e di cure, di essere stimati e apprezzati o, più semplicemente, di non essere soli.
È importante sottolineare come la presenza di persone disponibili all’ascolto sia efficace poiché mobilita il racconto delle proprie sventure. Raccontare è liberarsi dal peso della sofferenza, e l’accoglienza gentile e senza rifiuti o condanne da parte degli altri segnerà il passaggio da un racconto tutto interiore, penoso e solitario, alla condivisione partecipata dell’accaduto.
Tra le varie qualità finora descritte, che dovrebbero caratterizzare un individuo resiliente, quella di godere di un supporto sociale è, forse, la più importante.
Non che le altre siano meno determinanti, ma la differenza fondamentale è tutta qui: per sviluppare emozioni positive o accrescere la propria autostima è necessario lavorare su se stessi; per godere di supporto sociale, per condividere il peso delle proprie difficoltà è necessario trovare qualcuno disposto ad aiutarci.
E forse è proprio qui che risiede il senso di queste riflessioni.
Quattro suicidi, nell’arco di un mese, nella mia città.
Siamo davvero certi di poterci ritenere completamente estranei a quanto è accaduto? Siamo davvero sicuri di poterci esimere da ogni tipo di responsabilità per il solo fatto di non aver conosciuto personalmente nessuna di queste quattro persone?
Se da un lato è vero, come detto, che la resilienza di un individuo è determinata delle risorse personali e dei legami che si sono potuti creare prima e dopo l’evento traumatico, è altrettanto vero che, spesso, si è così concentrati sui propri problemi da dimenticarsi di esserci per chi ci sta accanto. Parlare in termini di resilienza vuol dire modificare lo sguardo con cui si leggono i fenomeni e superare un processo di analisi lineare, di causa ed effetto, innestando un circolo virtuoso nel quale, perseguendo il proprio benessere personale, si mira ad accrescere anche quello di chi ci sta accanto.
Troppo spesso ci chiediamo cosa possiamo fare per le persone che ci stanno accanto e che vediamo soffrire. Temiamo di non essere in grado di poterle aiutare e nemmeno proviamo a farlo. Temiamo di non essere in grado di trovare le parole giuste ed evitiamo di ascoltarle. Temiamo di non poter far nulla per loro, quando, invece, basterebbe soltanto esserci.
Educarsi alla resilienza, in fondo, vuol dire proprio questo: cadere, rialzarsi e proseguire più forti di prima, tendendo una mano a chi non ha ancora imparato a rialzarsi da solo.