L’unità d’Italia non è mai riuscita a nessuno

Caro Direttore,

l’aria un po’ cupa e un po’ grottesca che riempie le case degli italiani, nell’attesa di chissà quale messia, pone la solita questione del chi siamo, più che del che fare. Non c’è bisogno di aver letto Machiavelli o Guicciardini per farsi un selfie di autoanalisi. Gli italiani non sono un popolo, sono piuttosto un’accozzaglia di tribù che vive sulle rovine greche e romane, che gode di un paesaggio meraviglioso e vieppiù deturpato, che dà il meglio di sé in cucina. Il nostro Paese è percepito come un luogo di gaudio ma, a proprio rischio e pericolo, la nostra maggiore industria è il rifiuto delle regole, la nostra preoccupazione più alta è tirate a campare. Il giochetto funziona perché, miracolosamente, al nord vive un tessuto industriale europeo, al centro sopravvive il museo dei Medici e della Chiesa, al sud galleggia l’arte dell’arrangiarsi, camorre e malavita incluse. Questo per dire che l’unità d’Italia non è mai riuscita a nessuno: non a Garibaldi, non allo stato liberale, non al fascismo. Non è un problema di cannoli siciliani e di canaderli altoatesini, non è un problema dei diecimila dialetti, ché anche gli altri Paesi europei hanno piatti e dialetti diversi, ma è un problema di culture radicate e separate che hanno reso vano ogni tentativo di fare di noi un Paese solo e un popolo solo. E questo è noto.

La religione cattolica, il cristianesimo aveva fatto l’Europa e l’Italia, nei costumi, nelle cattedrali, nei conventi, nell’operosità benedettina: ma non era riuscita a sradicare le diversità fra villaggi, in fondo non era neanche il suo compito. L’unico cristianesimo unificante è riuscito per quarant’anni, dagli anni Cinquanta ai Novanta del secolo scorso, alla Democrazia Cristiana. Fra la seconda guerra mondiale e la caduta del comunismo e del Muro di Berlino, eravamo il Bengodi del mondo, nella condizione di Paese cerniera fra Est comunista e Ovest capitalista, una condizione che ci consentiva di spendere e spandere, nella speranza e nell’illusione che qualcuno un giorno avrebbe pagato il conto. Ma questo privilegio, ahimè, ci ha fatto cicale, da formiche che eravamo nella povertà all’inizio del Novecento. Con uno Stato Pantalone, abbiamo stratificato i peggiori vizi di indole mediterranea, a partire da quell’indolenza che ci fa più greci che francesi, più arabi che tedeschi. La furbizia è diventata un emblema positivo, invece che essere un pesante ostacolo. Lo Stato è diventato il parcheggio a vita per fare gli affari propri, più che lavorare. E, scendendo per li rami, evasori fiscali, finti poveri, lavoro nero, abusivismo edilizio, malattie inventate con la complicità del medico. Cristiani sì, ma dare a Cesare quel che è di Cesare, neanche per idea. Piuttosto prendere da Cesare il più possibile, tanto i cocci sono suoi. E invece no, i cocci adesso sono nostri.

I padri fondatori della nostra Repubblica, già negli anni Cinquanta del secolo scorso, immaginarono che un’Europa unita potesse essere argine a nuove guerre, a nuove povertà e al nostro fantasmagorico Paese, e avevano visto giusto, ma avevano troppo confidato nella buona sorte, nel nostro stellone.

A meno di trent’anni dalla caduta del Muro, siamo in Europa sì, grazie alla cortesia dell’Europa (come avrebbe detto quel gigante di Alcide De Gasperi), ma noi facciamo le bizze come se fossimo lì a prestare danari e non a prenderli a debito. Facciamo la faccia truce, senza rete, minacciando di tornare all’autarchia e al petto in fuori del nostro sciagurato Ventennio. Le masse plaudenti, come allora esultano, non avendo la minima percezione di quello che potrebbe accaderci. No. Siamo pieni di debiti. Appena un uomo di governo dice una parola ambigua o sbagliata il debito sale, ma gli attuali Vincitori fanno come il Pasquale di Totò che, a ogni sberla che prendeva, urlava di non essere Pasquale. In una famiglia normale, quando i conti peggiorano, si comincia a risparmiare, a lavorare di più, a inventarsi modi positivi per uscire dal guado. Se si tratta di un Paese intero, magari, mano sulla coscienza, qualcuno comincia a pagare le tasse, a dare la giusta paga a chi lavora, ad assentarsi di meno dall’ufficio, a rubare di meno sul peso del prosciutto, a pagare la mensa al figlio scolaro invece che fingersi indigente. Ecco, sarebbe una strada per pagare i debiti ai nostri prestatori di euro e cominciare ad essere più civili.

Chi pensa che la difesa della “razza italiana” sia un sacro dovere, è uno che ci vuole male, che vive il suo momento di gloria e lascia le macerie ai nostri figli e nipoti. Questa è la verità, ma per immaginarla, chi si fa capopololo abbia la compiacenza di studiare (prima) la storia e la geografia. Perché, se alla furbizia si aggiunge l’ignoranza, la via di uscita sarà molto triste.

Il mio dire è pessimista o è realista? Penso sia realista. Si può passare dal realismo alla speranza? Sì, a una condizione, che restiamo un Paese aperto al mondo, che i nostri figli e nipoti possano liberamente girarlo, impregnandosi altrove di virtù civili da riportare a casa. Ma se qualcuno riesce nel folle progetto di rifare le Nazioni, fonti di guerre e di sventure, perderei anche la speranza. Voglio ancora crederci, ma non so fino a quando.

 


Articolo precedenteLindholm: c’è del marcio in Danimarca
Articolo successivoLA PSICOTERAPIA, LA NATUROPATIA E L’ONTOSOFIA
Pugliese errante, un po’ come Ulisse, Antonio del Giudice è nato ad Andria nel 1949. Ha oltre quattro decenni di giornalismo alle spalle e ha trascorso la sua vita tra Bari, Roma, Milano, Palermo, Mantova e Pescara, dove abita. Cominciando come collaboratore del Corriere dello Sport, ha lavorato a La Gazzetta del Mezzogiorno, Paese sera, La Repubblica, L’Ora, L’Unità, La Gazzetta di Mantova, Il Centro d’Abruzzo, La Domenica d’Abruzzo, ricoprendo tutti i ruoli, da cronista a direttore. Collabora con Blizquotidiano.  Dopo un libro-intervista ad Alex Zanotelli (1987), nel 2009 aveva pubblicato La Pasqua bassa (Edizioni San Paolo), un romanzo che racconta la nostra terra e la vita grama dei contadini nel secondo dopoguerra. L'ultimo suo romanzo, Buonasera, dottor Nisticò (ed. Noubs, pag.136, euro 12,00) è in libreria dal novembre 2014. Nel 2015 ha pubblicato "La bambina russa ed altri racconti" (Solfanelli Tabula fati). Un libro di racconti in due parti. Sguardi di donna: sedici donne per sedici storie di vita. Povericristi: storie di strada raccolte negli angoli bui de nostri giorni. Nel 2017 ha pubblicato "Il cane straniero e altri racconti" (Tabula Dati).