
«Gli uomini, se qualcuno gli fa un brutto tiro, lo scrivono nel marmo; ma se qualcuno gli usa un favore, lo scrivono sulla sabbia»
(Tommaso Moro)
«Mio padre, pur bravo negli studi, a undici anni è stato tolto dalla scuola ed è stato mandato nei campi a lavorare come ragazzo dell’acqua…».
Caro lettore, adorata lettrice,
ho scritto così nel mio caffè di domenica scorsa e oggi mi chiedo quanti di voi conoscano la reale valenza di questa espressione: il ragazzo dell’acqua.
Dal contesto, anche per chi non ha familiarità con simili modi di dire, dovrebbe essere abbastanza facile risalire al significato generico: il ragazzo dell’acqua è colui che, nella piramide gerarchica di un’organizzazione complessa, occupa il gradino più basso ed è ritenuto in grado di fare solo il lavoro meno specialistico, quale appunto quello di portare l’acqua dal pozzo al contadino.
Ma io ho riflettuto a lungo su questa locuzione e, da figlio di Ostuni, la città bianca, mi sono fatto un’idea precisa su cosa significhi e su che autentica faticaccia sia fare il lavoro del ragazzo dell’acqua.
Prima qualche informazione sul territorio.
Ostuni sorge a 6km dal mare (ancor meno in linea d’aria), ma è in collina: a 218 metri di altitudine. Questo fa sì che sia ben visibile anche da lontano e che offra, a chi la visita, degli stupendi scorci panoramici che hanno sicuramente contribuito positivamente alla sua celebrità.
Le cose sono però un po’ meno romantiche per chi lavora negli orti a ridosso del centro storico e lo erano ancora meno quando non era arrivata nessun tipo di automazione e tutto quello che si faceva nei campi lo si portava a termine con tanto olio di gomito, quintali di sudore della fronte e lottando contro la forza di gravità.
Già, la forza di gravità: gli orti a Ostuni si snodano lungo terrazzamenti, un po’ come in Liguria, e ottanta o più anni fa non erano di certo dotati di sistemi di irrigazione. Nella Puglia notoriamente carsica e sitibonda, l’unica fonte di approvvigionamento d’acqua (un orto ha bisogno di tanta acqua!) erano le cisterne scavate nella pietra che di solito occupavano il punto più basso dei terrazzamenti per poter raccogliere l’acqua piovana.
Ti è chiara ora la situazione? Il contadino zappava l’orto e il suo tempo era troppo prezioso per andare e venire giù e su dalla cisterna a riempire un secchio d’acqua alla volta. A chi toccava, dunque, questo lavoro tanto umile, quanto disagevole e decisivo per la vita degli ortaggi? Ecco, ci siamo: al ragazzo dell’acqua, il più umile tra i servitori della gleba, ma anche quello che si spaccava la schiena e che, letteralmente, teneva in vita le piante grazie alla sua ben poco apprezzata fatica.
Mi fermerei qui e lascerei a te le conclusioni.
Insieme con un invito: quello di interrogarci su quanti ragazzi dell’acqua esistano ancora oggi, su quanti lavori vengano considerati troppo umili e poco appetibili, ben poco remunerati e gratificanti, eppure necessari per la vita della comunità.
Forse, se ce ne ricordassimo ogni tanto, ci sarebbe più facile dire anche un semplice grazie a chi li fa per noi: e sono tantissimi.
Qualcuno penserà che dire grazie non è tutto. Sono d’accordo. Ma per tanti sarebbe sicuramente moltissimo.
Indira Gandhi: «Mio nonno mi disse una volta che ci sono due tipi di persone: quelli che fanno il lavoro e quelli che si prendono il merito. Mi disse di cercare di essere nel primo gruppo; ci sarà sempre molta meno competizione».
Jason Leonard: «Andate a parlare di sacrifici a chi scende in miniera o a chi tutte le mattine si alza dal letto pensando che fuori dalla porta lo attende la catena di montaggio. Io sono fortunato, io gioco, non mi sacrifico».
Groucho Marx: «Eravamo in tre e lavoravamo come un sol uomo. Cioè due di noi poltrivano sempre».
grazie grazie grazie. Come ragazza della gioia ti esprimo il mio Sanuk and FOOD.
Grazie a te! Approfondirò il senso del tuo saluto