“La ripetizione di piccoli sforzi otterrà più dell’uso occasionale dei grandi talenti.”

(C.H. Spurgeon)

Ciao roccia, sono la goccia.

Sono barese, a Bari si dice così.

Descì la goccie alla roccie: timbe nge vol, ma u buc tu ià fa.

(Disse la goccia alla roccia: “tempo ci vuole, ma il buco te lo devo fare.”)

Senza dover salire qui in Ossola e scomodare le piogge che erodono i monti, resto in Puglia: gli scogli. Imponenti rocce a ridosso del mare.

Lui non ha bisogno di essere in tempesta per cambiar loro la forma. Né gli basterebbe una sola onda d’urto ben assestata, per cambiare le cose in maniera definitiva. (Neanche dieci, a dirla tutta).

In realtà è sempre il linguaggio del creato: esserci, a lungo, sempre, costantemente. Scalfisce, smussa, arrotonda anche se buca e non crea spigoli. Perché la costanza con buona intenzione, è l’esatto opposto dell’ostinazione con cattiva spinta.

Questo fatto di osservare la creazione ed ostinarmi a riportarla all’uomo, è la mia condanna. Più vado avanti e più, fra i due poli, l’unico dotato di libero arbitrio e viva voce, risulta stupido. Troppo spesso anche cattivo.

Mentre la natura no, lei non è mai arbitraria ed è un po’ come gli antichi detti della mia terra: non sbaglia mai. È saggia come i nonni: poco colti, forse, ma tanto ricchi di esperienza. Loro funzionavano con una parola che era troppa e due che erano poche. O con “mezza parola”.

Il creato, poi, figuriamoci! Nemmeno proferisce sostantivo. Non con l’ugola almeno.

Ma guai ad ascoltare quello che si pronuncia senza avere la nostra stessa lingua!

Quanti uomini roccia ho incontrato? Di quanti ho pensato che non fossero intaccabili? Quante volte sono inciampata in questa ingenuità? E quante volte ancora lo faccio?

Ma gli uomini roccia non sono che scogli. Con l’aggravante del cuore, della pancia e della coscienza. E più sono ruvidi e duri, più vuol dire che qualcosa hanno sentito, un dì, talmente nel profondo, da essersi fatti male ed aver dovuto mettere in piedi la corazza.

Ma se si sono fatti male, quel luogo oscuro del dolore esiste, la corazza lo protegge. Certo, a volte in modo quasi impermeabile, ma sempre, sempre e solo “quasi”.

E passiamo allora all’avversario: gli uomini goccia. Non quelli che vogliono bucare gratuitamente per fare male. Inutili tentativi di ledere il prossimo, che finiscono per compromettere dapprima sé stessi.

Mi riferisco, piuttosto, agli uomini goccia che un pochino lo hanno capito come funzionano gli uomini scoglio. E quindi un tentativo coraggioso lo fanno. E già questo, non è cosa di poco conto.

Però finiscono per sottovalutare lo spessore di quell’apparente pietra e rinunciano o, semplicemente, cambiano il movimento.

Non ricordano la regola della goccia: lei, se ha trovato il punto per smussare la roccia, non solo deve avere la santa pazienza di non spostarsi da quel punto, ma deve anche continuare ad accarezzarlo sempre nello stesso modo, tenacemente, senza stancarsi.

Altrimenti è finita. Fatica sprecata.

E sottolineo, accarezzare. Perché anche un’onda d’urto, quando umanamente intesa, può rivelarsi una carezza.

Chi è scoglio lo sa.

Ed è talmente vero che non è di pietra, da sentirle tutte le carezze delle gocce, apprezzarle e sperare che siano gocce un po’ meno “umane” della media, che ricordino la via, che non la mutino, che proseguano per quella strada e non ne scelgano improvvisamente un’altra, che capiscano quanto conti il come delle cose, che sappiano quale rischio corrono se decidono di rapportarsi all’uomo roccia: con lui, appena ti sposti di un millimetro, è di nuovo pietra.

Perché evidentemente ha sofferto molto. Ma nessuna goccia umana sembra avere l’ardire di comprendere che nello stesso momento in cui l’uomo roccia si lascia accarezzare, quando prova speranza (perché la prova), se è costretto a tornare pietra, sta soffrendo di nuovo.

E non lo dice.

E la parete si fa sempre più spessa.

Lui spera che le gocce abbiano letto, ma soprattutto compreso, il capitolo XXI del Piccolo Principe, in cui la volpe spiega chiaramente cosa significhi addomesticare qualcuno.

Vedete? Io penso che tutti siamo rocce e tutti siamo gocce, a seconda dei rapporti che scegliamo di intessere. Rivestiamo ambo i ruoli.

Ma credo anche che da gocce, non abbiamo quasi mai la giusta dose di pazienza e di costanza, ci stanchiamo, ci distraiamo, commettiamo piccoli atti di disattenzione, che poi lasciano segni.

E chissà quante volte lo abbiamo fatto, quante volte non ci è stato detto, quanto dolore più o meno grande abbiamo procurato e quante occasioni abbiamo perso di sfondare uno scoglio e trovare il regalo.

Lì dentro c’era un cuore… io credo che se riuscisse un’operazione così difficile, tanto roccia, quanto goccia, avrebbero vinto.

Goccia avrebbe dimostrato che “tempo ci vuole, ma il buco te lo devo fare” non era una minaccia ed avrebbe palesato la sua volontà, la sua instancabilità, il suo credere in sé e nella bontà solo apparentemente invisibile di una pietra.

Roccia avrebbe ritrovato sé stessa ed avrebbe potuto riprendere a regalare qualcosa di insostituibile a chi aveva davanti.

Perché ogni uomo, qualunque sia il suo ruolo, è esattamente questo: insostituibile.

Non esisterà mai un essere umano perfettamente identico ad un altro. È biologia. Perderne uno, anche solo uno, è una perdita gravissima.

Questo fatto di osservare la creazione ed ostinarmi a riportarla all’uomo, è la mia condanna.

Ma non mi stancherò mai, da buona roccia, di guardare le gocce.

E se mai fossi goccia? E no, a quel punto no. Se c’è un errore che non commetterò, salvo aver perso il lume della ragione, sarà quello di smettere, di modificare il come, se lo avrò trovato. Cercherò dentro di me, con tutta l’attenzione possibile, il modo per continuare delicatamente sulla strada che spiana la via verso quel buco. Un buco che dev’essere tenue. Piano, ma sempre, costantemente, con cura.

Perché “ci sono cose che vanno fatte ogni giorno. Mangiare sette mele la domenica sera, invece che una al giorno, semplicemente non produrrà l’effetto desiderato.” (J. Rohn)

Le basi.


FontePhoto credits: Rosa Maria Tulipani
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.