“Tra gli esseri umani, anche se intimamente uniti, è sempre aperto un abisso
che solo l’amore può superare”.
(Hermann Hesse)
Tema antico e sempre nuovo su cui ci siamo già soffermati, tema polisemico perché rinvia a molti significati; infatti, può essere paragonato a un prisma con tante facce e sfaccettature.
L’amore. Non ne esiste una versione univoca. C’è l’amore per la famiglia, l’amore per i genitori, l’amore per i fratelli, l’amore di coppia, l’amore d’amicizia, l’amore per la vita, l’amore per il denaro e così via.
Parlare dell’amore è un’impresa difficilissima, ma i poeti e gli scrittori, per fortuna, giocando con le parole, trovano nella loro fragilità la bellezza della chiarezza e del non detto da ricercare ancora.
Uno di questi è Hermann Hesse, i cui romanzi, come Siddharta o Narciso e Boccadoro, sono sempre disponibili in libreria e trovano lettori anche tra i giovani.
“Tra gli esseri umani, anche se intimamente uniti, è sempre aperto un abisso che solo l’amore può superare. E solo con una passerella d’emergenza”.
Questa battuta è tratta da una sua opera minore, Knulp, che offre una nota suggestiva e valida anche per la coppia o per il rapporto genitori-figli.
Ogni persona è pur sempre un’isola, un mistero a sé stante; al suo interno, spiega Hesse, si apre un abisso che s’allarga anche all’esterno e non può essere facilmente valicato. Ciascuno di noi può riconoscere di avere questa voragine ove si agitano serpenti e riposano tesori. È un precipizio sul quale passano rari lampi di luce, che sono i nostri esami di coscienza, le confessioni, le confidenze.
Per avere un qualche svelamento più vasto è necessaria una passerella su quel baratro: su di essa s’inoltra l’amore che è rivelazione, intimità, sincerità. Solo se l’altro – marito, moglie, figlio – offre questo ponte, si potrà varcare quell’abisso e conoscerlo, condividendone le paure, ma anche i segreti dolci e teneri. Questo avviene solo per donazione reciproca, in una comunione di pensieri e affetti, senza calcoli o riserve. Aveva, infatti, ragione Erich Fromm quando, ne L’arte di amare, scriveva: «La maggior parte della gente ritiene che amore significhi essere amati anziché amare».
Con realismo Hesse parla non di ponte stabile e solido, ma di una «passerella d’emergenza»: è la nostra fragilità che sempre dobbiamo controllare. Amare è, allora, anche saper perdonare e ricominciare. E poi arriva il giorno bello ed esaltante in cui uno può dire a un’altra persona: «Ti amo»; ma è ancor più alta e ineffabile la gioia di sapersi amati.
Ma c’è un risvolto negativo che è l’altra faccia della medaglia: sì è duro, senza dubbio, non essere più amati quando si ama; ma è niente in confronto a essere ancora amati quando non si ama più. È, questa, un’esperienza amara sia per chi è ancora amato e sente su di sé non più un dono ma un peso, sia per chi ama perché il suo amore è solo una fonte di sofferenza e di infelicità.
Aveva ragione, allora, il parroco di Ambricourt quando, nel famoso romanzo di Bernanos Diario di un curato di campagna, rivolge queste parole alla fredda e ipocrita contessa del paese: «Due sono le grandi gioie della vita d’amore di un uomo: la prima quando per la prima volta può dire “amo”; l’altra ancora più grande quando può dire “sono amato”. “L’inferno, signora, è allora non amare più”».