
Finestre sulla speranza…
Se dovessi scegliere un simbolo di questo anno scolastico, non sceglierei né la mascherina, né il gel, né i bollini adesivi per il distanziamento dei banchi. Sceglierei gli occhi dei bambini.
In questi mesi difficili, gli occhi dei bambini sono stati finestre aperte sulla speranza e sulla fantasia; i loro sguardi, senza protocolli e senza filtri, hanno colmato le distanze e hanno risposto alla retorica più becera. Sì, perché abbiamo fatto scuola, non “nonostante”, ma “nella” pandemia. I “nonostante” sono autocelebrativi, sottolineano il potere vuoto di chi è forte solo perché fugge continuamente la realtà, o desidera altro al punto da non abitare mai veramente il presente. I “nonostante” rivelano la pochezza delle occhiate degli adulti, sempre pronti a distorcere le cose, a in-vidiare, ossia a “guardare di sbieco”, dunque poco e male. Gli adulti, espertissimi nel pretendere una formazione impeccabile e poi bravi solo a canzonare gli insegnanti, a disprezzare pubblicamente chi studia e fa ricerca, trattando la cultura come accessoria, perché “la vita è altro”. E “tutti questi dottori freddi e senza amore a cosa servono?”. Follia, follia pura.
Agli occhi dei bambini queste pseudo-argomentazioni, queste facili ragioni da social usati male, non contano. Per loro la scuola è vita e la vita è anche scuola, sulle pagine dei libri e sulle storie dei compagni, tra le divisioni con i numeri e le moltiplicazioni dei gesti, nell’amore che, per dirla con un passo biblico sempre un po’ ab-usato, tutto copre perché non disgiunge niente, non in-vidia perché scruta in profondità (1Cor 13). Del resto, nella lingua italiana, occhio e ago hanno la medesima etimologia e uno sguardo può pungere fino al sangue, oppure può ricucire e tenere insieme le cose. E gli sguardi dei bambini appartengono alla seconda categoria.
Per tutto questo e per molto altro, io non li chiamo alunni: quel “nutrire”, “alimentare”, “far crescere”, legati al verbo alo, mi piace poco. È la solita idea della maestra-mammina che, in quanto donna, sarebbe naturalmente deputata alla cura (come qualche noto personaggio ha affermato recentemente), alla custodia dell’infanzia, alla crescita dei pargoli finché sono nell’intimità protetta della casa. Io li chiamo studenti, perché lo studium sotteso alla parola è “zelo”, “impulso”, “sollecitudine”, “tensione”; dunque, desiderio che fa muovere, energia che permette di camminare.
Incrociando i loro occhi, io ho visto questo: non contenitori da riempire o pargoletti da accudire, ma cuori complessi. Cioè esistenze vive, messe alla prova e impaurite, ma non sconfitte, tremanti ma ardenti di un desiderio incontenibile: stare insieme qui ed ora, sopportare il momento e superarlo, fare scuola come prima e più di prima. E da loro mi sono sentita guardata non come surrogato materno, ma come responsabile di un incredibile e poco categorizzabile microcosmo di tensione, impulsi, energie e desideri, un caos primordiale ed esplosivo, degno delle stelle più luminose.
Per questo, credo che i loro occhi non siano solo il simbolo di questo anno scolastico difficile e ormai concluso, ma una vera e propria reliquia. O forse un vero e proprio santuario, un luogo sacro cui recarmi di tanto in tanto a chiedere la grazia di uno sguardo più vero, meno in-vidioso, così innamorato della realtà da dimenticarsi l’imperativo a-morale dell’amore come dovere, così coraggioso da disertare certe lezioni di vita e preferire quelle di certi occhi, nei quali la vita non parla, ma brilla, non pretende nulla e tende a tutto.
Solo chi vive l’esperienza dell’insegnamento con profondità è in grado di cogliere certe sfumature significative e profonde.
Grazie Michela!