
«Vertù così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga»
(Purgatorio XIV, vv.37-39)
Anche il canto quattordicesimo si svolge interamente nella seconda cornice del purgatorio, quindi ancora tra gli invidiosi. La scena è occupata da Guido del Duca che, in compagnia di Rinieri da Calboli, prima chiede informazioni su Dante poi, ricevuta una risposta sommaria, si lancia in due lunghe apostrofi, inframezzate da una profezia su Fulcieri, figlio di Rinieri.
Le due apostrofi sono rispettivamente intese a fustigare la corruzione degli abitanti di Valdarno e la degenerazione dei costumi di nobili famiglie e città romagnole, ormai prive di ogni virtù cavalleresca. La chiusura è invece dedicata a cupi esempi di invidia punita: la prima, biblica, immortala Caino assassino del fratello Abele; la seconda, mitologica, evoca Aglauro che, invidiosa dell’amore tra la sorella Erse e il dio Mercurio, viene mutata in pietra.
Ben si comprende l’ammonimento finale di Virgilio che, amaro, osserva come gli uomini, preferendo il male al bene, abbocchino all’amo del Tentatore: a nulla servono qualsivoglia «freno o richiamo» (v. 147), non resta che attendersi il castigo divino.
Un canto, in definitiva, dalle tinte cupe. Basti pensare a come Guido appelli gli abitanti del Casentino, di Arezzo, di Firenze e di Pisa. Essi gli paiono quali vittime della maga Circe, da uomini resi bestie: sudici porci i Casentinesi, botoli ringhiosi gli Aretini, lupi famelici i Fiorentini, volpi astute e truffaldine i Pisani. Qualcuno potrebbe pensare ai porci, volpi e lupi dei nostri giorni…
Sarà per questo che la riflessione è catturata dai versi 37-39:
«Vertù così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga»
(Purgatorio XIV, vv.37-39).
Fuggono tutti la virtù come se fosse una serpe: fa impressione questa frase, apre uno spaccato sul mistero oscuro della natura umana. Debolezza e fragilità, si sa, ci connotano. Ma altro è cadere per errore non voluto, altro è fuggire il bene con orrore, quasi si fosse a tu per tu con una vipera.
Vien da chiedersi, perché? Perché siamo fatti così? Perché vediamo il bene e l’approviamo, ma ci attrae il male? Perché lavoriamo alla nostra infelicità? Cosa ci impedisce di amare, amarci e lasciarci amare?
Domande che non trovano risposta o forse sarebbe più giusto dire che non ne trovano solo una. Il giorno in cui fossimo capaci di fronteggiarle, a viso aperto, forse non avremmo più bisogno di leggere Dante, forse saremmo nel punto in cui tutto è buio: oppure luce.
Lao Tsu: «È meglio accendere una candela che maledire il buio».
Og Mandino: «Amerò la luce perché mi mostra la strada, ma sopporterò l’oscurità perché mi mostra le stelle».
E il nostro luminoso Aldo Moro: «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».
Ritrovare e riconoscere noi stessi, quella parte di noi più pura e reale senza maschere né inganni verso sé e gli altri…molto difficile ma necessario se vogliamo perseguire il bene e salvarci…
INAZIONE
Nel profondo sprofondo,
lago salato,
scie lasciate da zampilli di gocce
che languono, si consumano
in infiniti loop di cadute.
Scivolose salite, vette irraggiungibili,
frastuono di vecchi ricordi,
di stracci imbevuti di cloroformio
per annullare pensieri, ragione;
consapevolezza rapita da emozioni
in teche di ghiaccio.
Perdersi e ritrovarsi
in una roulette russa
senza uno sbocco all’orizzonte.
Perdersi e ritrovarsi… Grazie, Monica!